
L’attacco aereo israeliano che ha colpito Doha non è soltanto un episodio militare di una guerra già segnata da atrocità e fallimenti diplomatici. È, prima di tutto, una violazione lampante della sovranità di uno Stato terzo, il Qatar, che da anni svolge un ruolo di mediazione nelle più difficili trattative della regione. Un’azione del genere rappresenta un punto di non ritorno: mina le fondamenta del diritto internazionale, destabilizza gli equilibri diplomatici e rischia di allargare un conflitto che ha già oltrepassato ogni soglia di tollerabilità umana.
Il premier qatariota Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani ha definito l’attacco un “momento cruciale”. Ha ragione. Non si tratta soltanto di un raid contro Hamas, i cui leader sarebbero miracolosamente sopravvissuti, ma di un affronto diretto contro un Paese sovrano, colpito senza alcun preavviso. Doha ha ribadito di essere stata informata dagli Stati Uniti soltanto a bombardamento già in corso, smascherando così la fragilità delle giustificazioni di Israele e mettendo in imbarazzo Washington.
Donald Trump ha espresso profonda insoddisfazione
Il fatto che perfino Donald Trump, non certo noto per le sue critiche a Israele, abbia espresso “profonda insoddisfazione” per l’attacco, conferma la gravità della scelta israeliana. Non è un caso che leader europei, da Macron a Starmer, abbiano parlato apertamente di violazione della sovranità territoriale del Qatar. Il ministro degli Esteri tedesco ha definito il colpo “inaccettabile”. Non sono frasi di circostanza: è la consapevolezza che l’aggressione a Doha rischia di far saltare ogni prospettiva di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi.
La verità è che Israele ha deciso di oltrepassare un limite che fino a ieri nessuno aveva immaginato potesse essere varcato: colpire un Paese alleato dell’Occidente, al centro dei negoziati per la pace, per regolare i conti con Hamas. Una scelta non soltanto sconsiderata, ma autolesionista. Ha prodotto indignazione internazionale, ha indebolito le stesse ragioni della guerra dichiarata contro il terrorismo, ha mostrato al mondo un volto sempre più isolato e arroccato.
Sanzioni ad Israele
Ecco perché la reazione europea segna un passaggio importante. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato che Bruxelles proporrà sanzioni mirate contro i ministri estremisti del governo Netanyahu e valuterà persino la sospensione parziale dell’accordo di associazione tra Israele e l’Unione europea. Non è una minaccia da poco: Israele considera l’UE il suo principale partner commerciale, con scambi che valgono quasi un terzo del suo intero commercio estero. Colpire quel canale significa incidere direttamente sul cuore dell’economia israeliana.
Naturalmente il percorso non sarà semplice. Le divisioni all’interno dell’Unione restano profonde, con la Germania in posizione attendista e altri Stati membri riluttanti a spingersi oltre la condanna verbale. Ma il fatto stesso che la Commissione abbia posto la questione sul tavolo segna un mutamento di paradigma. Per la prima volta, Bruxelles sembra intenzionata a passare dalle parole ai fatti, riconoscendo che la spirale di violenza israeliana non può più essere giustificata come “legittima difesa”.
Nessun paese può agire nell’impunità
La posta in gioco è alta: non solo fermare una guerra che a Gaza ha già provocato oltre 64.000 morti, ma anche riaffermare il principio che nessun Paese, neppure Israele, può agire nell’impunità violando il diritto internazionale. Il bombardamento di Doha, capitale di uno Stato sovrano e alleato, è stato il punto di rottura. Se l’Europa saprà tradurre l’indignazione in misure concrete, potrà giocare finalmente un ruolo autonomo e credibile nella scena internazionale.
Non si tratta di “punire Israele” per partito preso, ma di difendere regole minime senza le quali nessun ordine internazionale può reggere. La sovranità degli Stati, il rispetto delle convenzioni umanitarie, la protezione dei civili non sono optional. Sono la condizione stessa per evitare che il caos diventi la norma.
Il “momento cruciale” evocato dal premier qatariota riguarda dunque non solo il Medio Oriente, ma l’intero sistema internazionale. L’Europa deve decidere se restare spettatrice impotente o assumersi la responsabilità di dire che la legge vale per tutti. Anche per Israele.