
La guerra tra Iran, Israele e Stati Uniti non si è mai davvero dichiarata, ma si combatte con ferocia e rapidità, lasciando dietro di sé non solo crateri e morti, ma un vuoto diplomatico che ora rischia di fagocitare il Medio Oriente. A firmare il cessate il fuoco è stato Donald Trump, ma la sua proclamata vittoria sembra più un’illusione di propaganda che un fatto. “Abbiamo annientato il programma nucleare iraniano”, ha dichiarato. Tuttavia, tutte le fonti internazionali più autorevoli smentiscono.
Stando quanto riportato da Reuters, i bombardamenti statunitensi non hanno eliminato il programma nucleare iraniano, ma l’hanno rallentato solo di pochi mesi. Il rapporto riservato della DIA (Defense Intelligence Agency, l’agenzia di intelligence militare del Pentagono), citato da tre fonti interne, conferma che alcune centrifughe restano operative e che l’uranio arricchito è stato evacuato prima degli attacchi. La valutazione ufficiale parla di un “ritardo tecnico” nella produzione, non di una distruzione totale.
Secondo il britannico The Guardian, una parte significativa dell’uranio altamente arricchito – quantità sufficiente a realizzare circa dieci ordigni nucleari – sarebbe attualmente sfuggita alla supervisione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Pur confermando l’entità dei danni subiti dalle strutture iraniane, l’IAEA non ha di fatto potuto attestare la totale compromissione delle capacità operative del programma, limitandosi a formulare con prudente uso del condizionale. Una situazione che, per gli esperti di non proliferazione, rappresenta una vera e propria emergenza strategica. Ian Stewart, del CNS presso il Middlebury Institute, ha lanciato l’allarme su Bluesky: “Ci sono dieci bombe nucleari fuori controllo, e nessuno sa dove siano”.
È proprio questa opacità a rendere il quadro ancora più inquietante. Anche Meduza, media russo indipendente, rilancia l’analisi di un esperto iranologo che ha preferito mantenere l’anonimato: “All’Iran non serve una guerra, gli serve l’arma nucleare. Ora più che mai”. Una trasformazione che rischia di cambiare per sempre l’equilibrio regionale. La Repubblica Islamica non ha mai mostrato aggressività diretta contro Israele prima di questo conflitto, ma l’attacco è stato interpretato da molti come una risposta a un’aggressione preventiva. Una zona grigia, come l’ha definita il vicepresidente americano J.D. Vance: “Tecnicamente è una guerra, ma di fatto… Dio solo sa cos’è stato”.
Israele, dal canto suo, rivendica di aver neutralizzato due minacce esistenziali: il programma nucleare iraniano e l’arsenale di missili balistici. Tuttavia, la realtà risulta ben più complessa. Le immagini satellitari rivelano danni ingenti, ma non decisivi.
Jeffrey Lewis, eminente studioso americano, specializzato in non‑proliferazione nucleare e controllo degli armamenti, è categorico: le capacità nucleari iraniane sono “danneggiate, non distrutte”. Secondo Lewis, l’obiettivo principale non era eliminare il programma, ma dimostrare che Stati Uniti e Israele erano pronti ad agire. Sottolinea inoltre che molte centrifughe avanzate e scorte di uranio potrebbero essere state spostate in siti profondi, come il nuovo impianto sotto il monte a Natanz, rendendo il danno meno critico.
Un’ipotesi avvalorata anche dall’ultimo rapporto dell’IAEA, che segnala la perdita di tracciabilità dell’uranio arricchito al 60% e la probabile sopravvivenza di infrastrutture essenziali, in particolare di centrifughe di nuova generazione che sarebbero state ricollocate proprio nel sito scavato nelle profondità montuose di Natanz, rimasto intatto durante i raid. La conclusione di Lewis è netta: il programma nucleare iraniano non è stato spento. Il suo avanzamento è forse rallentato di uno o due anni, ma resta una realtà concreta, non più un mero strumento negoziale.
Sul piano diplomatico, l’immagine internazionale dello Stato ebraico ha subito un duro colpo. Lo stesso Donald Trump, in un impeto polemico, ha accusato Tel Aviv di voler ostacolare un possibile accordo per il cessate il fuoco.
Ma cosa è realmente cambiato, sul piano politico, per l’Iran? Prima dell’offensiva, i sondaggi indipendenti indicavano che oltre il 70% della popolazione si opponeva apertamente al regime. Tuttavia, i raid israeliani hanno avuto un effetto imprevisto: hanno rinsaldato il fronte interno. Molti dissidenti, pur continuando a rifiutare il controllo degli ayatollah, hanno visto nell’attacco esterno una minaccia alla sovranità nazionale. L’odio per il regime ha ceduto temporaneamente il passo al sentimento patriottico.
Nel frattempo, a Teheran si apre uno scenario inquietante. Il Parlamento discute apertamente la possibilità di ritirarsi dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP), rompendo un tabù che fino a pochi mesi fa sembrava intoccabile. E mentre la comunità internazionale si interroga sulla strategia israeliana, cresce il timore che la guerra abbia finito per legittimare – agli occhi di molti iraniani – proprio ciò che si voleva impedire: l’arma atomica.
Trump e Netanyahu spingono apertamente per un cambio di regime. Ma, come sottolinea Jeffrey Lewis, “Se dopo questo attacco il regime iraniano resta in piedi, con un’opzione nucleare, sarà stato un fallimento strategico totale”. La teocrazia resiste, rafforzata nel suo discorso di legittimità: “Abbiamo già perso presidente e premier negli anni Ottanta. Ma siamo sopravvissuti. Ora anche gli esuli ci difendono”.
La tregua è un miraggio. Nelle ultime ore, Israele ha intercettato nuovi missili. L’Iran nega. Ma i crateri aumentano. Gli USA minimizzano, mentre Trump insiste: “Tutti sanno cosa succede quando lanci 14 bombe da 30.000 libbre su un bersaglio: totale obliterazione”. Tuttavia, i dati, le immagini e le analisi dicono altro.
L’unica certezza è che nessuno ha vinto. Il Medio Oriente è più instabile. Il diritto internazionale è stato calpestato e una nuova stagione di proliferazione nucleare è già iniziata.
La narrativa trionfalistica di Trump non regge alla prova dei fatti. La scelta di colpire obiettivi tanto simbolici quanto vulnerabili si è rivelata un boomerang. L’Iran ha visto rafforzato il consenso interno e accelerato la propria corsa all’atomica. Gli USA hanno mostrato forza, ma perso controllo. Israele ha colpito, ma non ha eliminato la minaccia. Il mondo ha perso l’ennesima occasione di costruire pace attraverso il dialogo. Ora si apre un tempo ancora più pericoloso, perché se l’unico argine alla bomba è la paura della bomba stessa, la corsa non si fermerà: sarà solo più silenziosa, più profonda e molto più difficile da fermare.
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