
Pedro Sánchez ha scelto la scena più rischiosa, il vertice NATO, per ricordare che la sovranità non è uno slogan da comizio, ma una pratica di governo. Annunciando un contributo alla difesa fermo al 2,1% “nel prossimo decennio”, il premier spagnolo ha mostrato che le priorità di Madrid, welfare, transizione verde, coesione sociale, non si piegano ai diktat di Washington. È un gesto che ha fatto infuriare Donald Trump, il quale ha reagito con il consueto armamentario intimidatorio (“farò pagare alla Spagna il doppio dei dazi”), ma che obbliga l’Alleanza, finalmente, a discutere non solo quanto, ma come si spende per la sicurezza.
Il paradosso è che questa prova di autonomia arriva da un leader socialdemocratico, mentre la “sovranista” per eccellenza, Giorgia Meloni, continua a rifugiarsi sotto l’ala, o la giacca, del tycoon americano. Da Varsavia a Washington, la presidente del Consiglio italiana non perde occasione per farsi immortalare accanto al suo idolo, come se la credibilità internazionale dell’Italia dipendesse da un’inquadratura perfetta al suo fianco. È un abbraccio imbarazzante persino per parte del suo stesso elettorato: quel “prima gli italiani” finisce sistematicamente tradotto in “prima gli Stati Uniti”.
La postura di Meloni presenta due gravi difetti strategici. Primo: confonde la deferenza personale con l’influenza politica. Trump non concede nulla gratuitamente; sfrutta la docilità degli alleati come leva negoziale e non esiterà a sacrificare Roma se l’Europa finirà nel mirino della sua prossima guerra commerciale. Secondo: inchioda l’Italia a un ruolo subalterno proprio mentre l’Unione, pur tra esitazioni, cerca di definire una propria agenda di difesa autonoma.
Sánchez, al contrario, ha fatto un calcolo semplice: meglio un “no, grazie” oggi che un commissariamento domani. Quando, nel 2029, il Segretario generale della NATO, oggi Mark Rutte, condurrà una “verifica approfondita” sugli impegni degli alleati, Madrid potrà rivendicare scelte coerenti: investimenti mirati in capacità navali, cyber-difesa, partecipazione a progetti europei come il caccia di nuova generazione. Tutto questo senza imbarcarsi in una corsa alle spese militari che i conti pubblici spagnoli, ancora segnati da disuguaglianze e debito, non possono permettersi. In altre parole, Sánchez pratica un sovranismo responsabile: tutela il contribuente, governa le aspettative dell’Alleanza, difende l’autonomia industriale.
E mentre Sánchez resiste, Rutte si inchina. Nominato segretario generale della NATO per la sua immagine moderata e atlantista, l’ex premier olandese ha subito dato prova di servilismo verso Trump, arrivando a citarlo come “daddy”, papà, e a scambiarsi con lui messaggi deferenti poi resi pubblici dallo stesso Trump sui social. Una genuflessione diplomatica che ha il sapore di una fedeltà personale più che istituzionale e che mina la credibilità dell’Alleanza come spazio multilaterale.
Meloni, dal canto suo, appare ostaggio di un sovranismo da vetrina, pronto a inginocchiarsi davanti alla “potenza straniera” da cui dovrebbe emanciparci. E l’Italia? Non ha risorse illimitate, eppure si impegna ad aumentare la spesa militare senza alcuna discussione pubblica, né una visione strategica che renda tutto questo sensato.
Un sovranismo autentico difende l’interesse dei cittadini, non l’ego di un alleato. Pedro Sánchez lo ha fatto con una scelta coraggiosa e concreta: ha detto alla NATO che la Spagna farà la sua parte, ma secondo un cronoprogramma compatibile con le sue reali priorità. Giorgia Meloni ha invece scelto la classica foto “opportunity” con Trump, certificando la subalternità italiana.
Se il vero test della sovranità è la capacità di dire “basta” quando serve, allora oggi il vero sovranista siede a Madrid. E sarebbe bene che a Palazzo Chigi qualcuno se ne accorgesse, prima che il conto, politico ed economico, arrivi sul tavolo degli italiani.