
Nel cuore della Guerra Fredda, mentre il mondo si divideva in blocchi ideologici, uno dei più intricati giochi di potere si consumava lontano dai riflettori: nel Medio Oriente insanguinato da conflitti, identità e narrazioni. A raccontarne uno dei retroscena più inquietanti fu un uomo che aveva vissuto dall’interno la macchina segreta della propaganda comunista: Ion Mihai Pacepa, generale della Securitate, la polizia segreta della Repubblica Socialista di Romania, e stretto collaboratore di Nicolae Ceaușescu. La sua defezione del 1978, verso l’Occidente, non fu solo un colpo clamoroso per l’intelligence sovietica, ma anche il prologo di una serie di rivelazioni destinate a scuotere la storia contemporanea.
Pacepa raccontò di un piano preciso, sistematico, condotto dal KGB per manipolare l’opinione pubblica globale e plasmare nuove narrazioni in grado di alterare il corso geopolitico. Tra queste, una in particolare spiccava per la sua audacia: la presunta “invenzione” del popolo palestinese come strumento propagandistico volto a demonizzare Israele e legittimare la causa araba attraverso una costruzione identitaria a tavolino.
Nel suo libro Disinformation del 2013, scritto in collaborazione con il professore americano Ronald Rychlak, Pacepa svela l’esistenza di un’operazione segreta chiamata SIG (Zionist Governments). Coordinata dallo stesso Jurij Andropov, capo del KGB e futuro leader dell’Unione Sovietica, SIG avrebbe avuto un obiettivo dichiarato: infiltrarsi nei media e nelle università del mondo arabo per alimentare l’odio contro Israele e gli Stati Uniti, facendo leva su una narrazione antisemitica in salsa marxista-leninista. Il mondo islamico, secondo le parole attribuite ad Andropov, era “una piastra di Petri in cui coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista”.
Secondo Pacepa, fu in questo laboratorio ideologico che nacque la decisione di creare una figura nuova e mediatica: il “palestinese” come popolo distinto, oppresso, sfruttato da una potenza militare crudele e coloniale. Per rendere credibile questa identità, era necessario anche un leader carismatico e simbolico. Così entrò in scena Yasser Arafat, un uomo che secondo Pacepa non era nemmeno palestinese di nascita, ma egiziano, formatosi politicamente all’interno delle strutture sovietiche, addestrato a Balašicha, alle porte di Mosca. Il KGB, sempre stando alle dichiarazioni di Pacepa, avrebbe distrutto i suoi documenti originali e prodotto nuove carte d’identità che lo indicavano come nato a Gerusalemme, per legittimarlo come portavoce autentico della causa.
Seguendo la narrazione dell’ex agente, la Carta Nazionale Palestinese, approvata nel 1964, redatta direttamente a Mosca, con la partecipazione di 422 delegati selezionati accuratamente dagli apparati sovietici. Il documento non solo invocava la lotta armata contro Israele, ma rifletteva, secondo alcuni analisti occidentali, la struttura linguistica e concettuale del marxismo rivoluzionario sovietico. Non si trattava, quindi, solo di una causa nazionale, ma di una narrazione globalizzata del conflitto, utile all’URSS per ampliare la propria influenza ideologica nel mondo arabo.
Ma quanto di questa storia è reale? Quanto è documento e quanto è disegno narrativo?
Diversi analisti hanno preso in esame le affermazioni di Pacepa, riconoscendogli credibilità come fonte interna ma sottolineando anche la mancanza di prove documentali indipendenti. Non esistono, infatti, finora, dossier ufficiali del KGB declassificati che confermino in maniera incontrovertibile la creazione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) da parte di Mosca. Tuttavia, ci sono molteplici tracce storiche del sostegno sovietico alle organizzazioni palestinesi, a partire dal supporto armato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), fino al riconoscimento dell’OLP come interlocutore politico nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1974.
Il ruolo dell’Unione Sovietica nell’appoggiare movimenti armati non è una novità. Già nel 1969, oltre 80 dirottamenti aerei furono compiuti da gruppi affiliati all’OLP, molti dei quali ricevevano fondi, logistica e addestramento militare da Paesi del blocco orientale. Lo stesso Arafat fu ricevuto con onori di Stato da Brežnev a Mosca, più volte tra gli anni ’70 e ’80. La complicità ideologica e militare era palese.
Nonostante ciò, numerosi storici e studiosi del Medio Oriente rifiutano l’idea che l’identità palestinese sia solo una “fabbricazione”. Il popolo palestinese esisteva ben prima del 1964, con radici culturali, religiose e geografiche che affondano nel Mandato Britannico, nella crisi del 1948, nella Nakba, nell’esilio e nella diaspora. Il nazionalismo palestinese – come sottolineato anche dall’intellettuale palestinese-americano Edward Said, una delle voci più influenti del pensiero critico del XX secolo – è emerso come risposta politica alla frantumazione sociale e territoriale vissuta dalla popolazione araba della Palestina, non come una semplice invenzione propagandistica.
A complicare il quadro, nel 1977 il dirigente dell’OLP Zahir Muhsein, in un’intervista al quotidiano olandese Trouw, dichiarò: “Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo Stato di Israele per la nostra unità araba”. Parole ambigue, che oggi vengono spesso riprese e citate per mettere in dubbio l’autenticità dell’identità palestinese, ma che potrebbero essere interpretate anche come una strategia politica interna all’ideologia panaraba di quegli anni.
Il racconto di Pacepa è tanto affascinante quanto controverso. Offre uno sguardo da dentro il cuore dell’apparato sovietico, rivelando strategie di manipolazione dell’opinione pubblica globale, ma è anche un racconto che rischia di diventare arma ideologica, se non viene confrontato con la complessità dei fatti storici. La verità, come spesso accade in Medio Oriente, non si lascia catturare facilmente da una sola voce, da un solo documento o da una sola dottrina. Vive tra le macerie della storia, nelle ferite della memoria, nel racconto spezzato di popoli in cerca di riconoscimento.
Israele ha combattuto guerre esistenziali, subendo attacchi da Egitto, Siria, Iraq e Giordania. I palestinesi hanno vissuto l’esilio, l’occupazione e l’isolamento. In questo scenario di dolore reciproco, riscrivere la storia significa anche scegliere da che parte guardare il mondo e ogni scelta narrativa porta con sé una responsabilità etica: quella di cercare la verità, non solo l’effetto.
Riproduzione riservata.