Il cattolicesimo secondo Vance

JD Vance si dichiara cattolico fervente, ma le sue scelte politiche tradiscono la dottrina sociale della Chiesa. Il Papa prende le misure

JD Vance

C’è qualcosa di stonato, e forse anche di ipocrita, nella parabola che ha condotto JD Vance dai monti Appalachi fino alle Logge di Raffaello. Il vicepresidente degli Stati Uniti, convertito al cattolicesimo nel 2019 e autoproclamatosi “baby Catholic”, ha varcato ieri le soglie del Palazzo apostolico come se il peso delle sue parole e delle sue scelte politiche non lo seguisse. Eppure, lo segue eccome. Perché le sue politiche, e quelle dell’amministrazione Trump che rappresenta, cozzano frontalmente con la dottrina sociale della Chiesa, soprattutto sul tema dei migranti.

Vance forse non sarà ricevuto da papa Francesco. Questione di protocollo, si dice. Ma sappiamo bene che il Pontefice non ha mai esitato a infrangere il protocollo quando lo ha ritenuto necessario, anche durante la convalescenza, come ha fatto di recente con re Carlo III. Difficile non leggere, dietro questo possibile mancato incontro, una presa di distanza. Un messaggio silenzioso ma eloquente: dirsi cattolici non basta, se le azioni smentiscono il Vangelo.

La Chiesa di Bergoglio ha messo i poveri, i migranti, gli ultimi al centro del Vangelo vissuto. Il Papa ha condannato senza mezzi termini il “programma di deportazioni di massa” di Donald Trump, bollandolo come una violazione della dignità umana. Ha ribadito, anche di recente, che costruire sulle basi della forza e non sulla pari dignità di ogni essere umano significa iniziare male e finire peggio. E cosa fa JD Vance? Difende queste politiche, le riveste di un moralismo selettivo, invoca il concetto agostiniano di ordo amoris, l’ordine dell’amore, per giustificare la precedenza data alla propria famiglia e alla propria nazione. Ma dimentica che, nel Vangelo, il prossimo non è solo chi ci assomiglia. Il samaritano non era della “nostra parte”, eppure è lui l’esempio evangelico di carità.

La diplomazia vaticana, nella sua nota ufficiale, ha mostrato il consueto aplomb: “cordiale colloquio”, “buone relazioni bilaterali”, “comune impegno per la libertà religiosa”. Ma basta leggere tra le righe per cogliere lo scarto profondo. Lo “scambio di opinioni”, un eufemismo elegante per dire che non ci si trova, ha toccato i nodi scoperti: le guerre, i rifugiati, la crisi del multilateralismo. Temi su cui la Chiesa insiste da anni, mentre Vance e i suoi alleati politici ne fanno strumenti di propaganda e paura.

Lo scontro non è solo politico. È teologico. È umano. È tra una Chiesa che proclama l’universalità dell’amore cristiano e una visione ristretta, etnocentrica, dove la fede diventa bandiera d’identità nazionale. Vance si presenta come uomo di Dio, ma difende tagli ai fondi per la cooperazione internazionale e accusa i vescovi americani di criticarlo “per interesse”. Si professa cattolico, ma disprezza apertamente i principi di accoglienza e misericordia che sono il cuore pulsante del Vangelo.

La Chiesa, ieri come oggi, dialoga con tutti. Ma non per questo tace. E se ieri non c’è stato il sorriso di Francesco, se non c’è stata quella foto di rito con moglie e figli, un motivo c’è. È il modo più sobrio, ma non meno deciso, per dire che tra il Vangelo e la deportazione di massa non può esserci mediazione. Che la fede non è un travestimento da indossare a convenienza. E che, a volte, il silenzio dice molto più di mille parole.