
Un leader politico si misura non solo dalla capacità di governare, ma anche dal modo in cui accetta il confronto con la stampa. È un banco di prova inevitabile, spesso scomodo, ma necessario in una democrazia che non si riduca a mera gestione del potere. Il recente fuori onda di Giorgia Meloni a Washington, quando, accanto a Donald Trump, ha confidato di “non voler mai parlare con la stampa italiana”, confermano un atteggiamento che non è nuovo, ma che oggi appare in tutta la sua chiarezza: la presidente del Consiglio preferisce evitare i giornalisti.
Non si tratta solo di una battuta colta dai microfoni indiscreti, ma di un tratto costante del suo stile politico. Meloni privilegia i monologhi, i video sui social, le dichiarazioni senza contraddittorio. Ha scelto con cura il palcoscenico su cui parlare, evitando invece il rischio di dover rispondere a domande scomode. Ma il giornalismo libero non serve a confermare la narrazione del potere: serve a interrogarla, a metterla in discussione, a renderla responsabile davanti ai cittadini.
Il confronto con Trump è rivelatore. Il presidente americano, pur avendo un rapporto conflittuale e spesso aggressivo con la stampa, non si è mai sottratto al contatto diretto. Anzi, ne trae energia politica: il contrasto con i giornalisti fa parte della sua identità pubblica. Meloni, invece, si ritrae. Non combatte la stampa: la evita. Preferisce sottrarsi al terreno del confronto, forse perché sa che lì il controllo sfugge, le domande non sono filtrate e il racconto non dipende da lei.
I dati lo confermano: secondo l’analisi di Pagella Politica, Meloni è la presidente del Consiglio che ha concesso meno conferenze stampa negli ultimi anni. Le eccezioni sono rare, l’ultima risale a gennaio 2025. In quell’occasione, rivendicò di aver comunque risposto a centinaia di domande in altri contesti, come se la quantità potesse compensare la qualità. Ma il punto non è numerico: è politico. Una conferenza stampa non è una sequenza di quesiti rapidissimi, scelti a piacere, ma uno spazio di trasparenza in cui i giornalisti possono incalzare, insistere, approfondire.
Il problema è che le domande, in politica, non sono mai innocue. Possono essere scomode, rivelare contraddizioni, mettere in discussione scelte o parole. Ed è qui che si misura la differenza tra chi considera la comunicazione solo come strumento di propaganda e chi la vive come parte integrante della responsabilità democratica. Evitare le domande significa evitare la verifica, e quindi indebolire il rapporto di fiducia con i cittadini.
Giorgia Meloni sa parlare bene: il suo stile è diretto, incisivo, spesso efficace. Ma la forza della parola non basta quando diventa monologo. In democrazia, un leader non ha solo il diritto di parlare: ha il dovere di rispondere. E rispondere non solo agli applausi dei sostenitori, ma anche agli interrogativi dei cronisti. Non è una scelta, è un obbligo che deriva dal ruolo.
Alla Casa Bianca, la battuta “non voglio mai parlare con la stampa italiana” poteva sembrare una confidenza leggera. Ma proprio nella leggerezza si svela una verità più profonda: Meloni non ama il contraddittorio. Eppure, governare significa anche accettare di rendere conto, e la stampa libera è il primo strumento con cui un Paese misura la salute della sua democrazia.
Se la premier davvero non vuole mai parlare con la stampa italiana, allora la domanda da rivolgerle non è “perché lo fa?”, ma “come può un Paese democratico tollerarlo?”.