Gaza: il ritorno tra le rovine e la pace senza i protagonisti

Trecentomila palestinesi tornano in una città distrutta mentre la pace si firma lontano, senza Israele né Hamas

Il rientro a Gaza City

Trecentomila palestinesi sono tornati a Gaza City dall’inizio della tregua. Tornano in una città distrutta, dove nulla è rimasto integro: né le case, né le scuole, né gli ospedali. La protezione civile della Striscia, gestita da Hamas, parla di 150 cadaveri recuperati nelle ultime ore e di oltre 9.000 persone ancora disperse. Si tratta di una tragedia umanitaria che non si misura più soltanto nei numeri, ma nella perdita di ogni punto di riferimento civile e umano.

Il ritorno di questa popolazione avviene in condizioni drammatiche. Mancano tende, infrastrutture, servizi di base. È un rientro forzato in un territorio devastato, dove il concetto stesso di “ricostruzione” appare oggi più politico che materiale.

Una tregua senza pace

La tregua in corso ha consentito il rientro di parte degli sfollati, ma non ha ancora aperto un vero processo di pace. Si tratta di una sospensione delle ostilità più che di una soluzione. Le macerie continuano a parlare di un conflitto che, pur temporaneamente fermo, non è risolto nelle sue cause profonde.

Il rischio è che la tregua diventi un intervallo tecnico, utile ai protagonisti internazionali per riorganizzare le rispettive posizioni, ma non ai civili che ne subiscono le conseguenze.

La firma della pace senza Israele e Hamas

Lunedì, a Sharm el Sheikh, si terrà la cerimonia di firma dell’accordo per la cessazione delle ostilità. A presiederla sarà il presidente statunitense Donald Trump, insieme ai mediatori di Egitto, Qatar e Turchia. Non saranno presenti rappresentanti né di Israele né di Hamas: un’assenza che sottolinea la natura di questo accordo, costruito su intese indirette e su lettere di principio fornite separatamente.

La pace, dunque, sarà firmata da chi la osserva, non da chi la combatte. È una pace delegata, nella quale gli attori diretti del conflitto restano fuori dalla scena diplomatica.

Gli ospiti della cerimonia

Alla cerimonia sono stati invitati i principali Paesi europei, Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Spagna, Grecia e Unione Europea, e diversi Stati arabi e islamici: Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Emirati Arabi, Egitto, Giordania, Pakistan e Indonesia. È una platea ampia, rappresentativa della comunità internazionale, ma anche un segnale di quanto la questione di Gaza sia ormai divenuta terreno di equilibri geopolitici globali.

La presenza di tanti mediatori e osservatori, però, non garantisce che la firma si traduca in stabilità. Senza un consenso effettivo tra le parti, ogni documento resta vulnerabile.

L’Europa e la ricostruzione

L’Unione Europea ha annunciato la disponibilità a contribuire all’attuazione del piano di pace e alla fornitura di aiuti umanitari. Sono pronte 170.000 tonnellate di materiali e beni di prima necessità, stoccati in Giordania ed Egitto. L’ONU ha ricevuto da Israele il via libera per l’ingresso degli aiuti nella Striscia a partire da domenica.

Si tratta di un passo importante, ma ancora insufficiente rispetto alle dimensioni della crisi. L’Europa, se vuole incidere, dovrà passare dalla gestione emergenziale alla responsabilità politica, sostenendo un percorso di ricostruzione civile e istituzionale, non solo materiale.

Le tensioni che non si spengono

Nonostante la tregua, la regione resta instabile. Dal Libano giungono notizie di nuovi attacchi israeliani contro civili, mentre a Gaza si discute del rilascio di ostaggi e detenuti. Gli Stati Uniti hanno inviato 200 militari per supervisionare il cessate il fuoco, segno che la comunità internazionale considera fragile ogni accordo raggiunto.

Gaza, simbolo di una pace incompiuta

Oggi Gaza rappresenta il paradosso di una pace proclamata senza un vero processo politico. Mentre la diplomazia prepara la cerimonia della firma, migliaia di civili tornano a vivere tra le rovine, privi di sicurezza e di prospettive.

La pace non può essere solo un evento mediatico. Deve diventare una realtà tangibile per chi, in quella terra, continua a sopravvivere. Finché questo non accadrà, ogni tregua resterà una pausa, non una svolta.