
Nel corso della sua informativa alla Camera, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha pronunciato parole che, a una prima lettura, sembrano riflettere buon senso e prudenza diplomatica: condanna delle violenze, richiamo al diritto internazionale, invito a fermare l’offensiva su Gaza. Eppure, dietro questa apparente compostezza si cela una scelta politica precisa: evitare ogni mossa che possa realmente incidere sugli equilibri in gioco.
Tajani ha chiesto un minuto di silenzio per le vittime di entrambe le parti. Un gesto dovuto. Ma nei venti minuti successivi, ha eluso con cura ogni riferimento diretto al governo di Benjamin Netanyahu, responsabile dell’azione militare che sta colpendo indiscriminatamente una popolazione civile ormai allo stremo. Nessun nome, nessuna presa di distanza concreta. Solo una serie di enunciazioni, condivisibili ma generiche, che, nella sostanza, spostano l’attenzione su ciò che l’Italia non farà.
Non ci saranno sanzioni, dice il ministro. Non verrà interrotta alcuna cooperazione. Non si riconoscerà lo Stato di Palestina. L’Italia, ci viene detto, continuerà a inviare aiuti umanitari, un impegno importante e apprezzabile, ma è lecito domandarsi: può un aiuto umanitario sostituire la responsabilità politica? Può la diplomazia limitarsi ad accompagnare il dolore, senza cercare davvero di impedirlo?
Le reazioni in Aula, accese e scomposte, sono state il sintomo di una frattura che ormai attraversa non solo il Parlamento ma la coscienza del Paese. Il momento di massima tensione si è avuto quando Tajani ha reagito con un sorriso durante l’intervento del deputato Giuseppe Provenzano. Che si trattasse, come ha poi detto, di una risposta “pacifica” a toni esasperati, poco cambia. In un dibattito su una tragedia umanitaria di proporzioni immani, anche un’espressione del volto assume un peso politico. E quel sorriso è sembrato, agli occhi di molti, un gesto fuori luogo.
Ancora più grave il passaggio in cui, parlando del rischio di antisemitismo, Tajani si è rivolto chiaramente verso i banchi dell’opposizione. Lì, il confine tra la legittima difesa di un principio e l’allusione politica si è fatto sottile. Chi da sempre combatte ogni forma di discriminazione non può accettare, senza reagire, che una critica all’operato di un governo straniero venga confusa con un pregiudizio. Il sostegno alla causa palestinese, quando si basa su diritto e giustizia, non è negazione dell’altro, ma difesa dell’umanità intera.
Il punto politico resta però uno: il governo italiano continua a dichiararsi equidistante, ma questa equidistanza, priva di atti concreti, rischia di trasformarsi in indifferenza. Di fronte a una crisi che ha già fatto migliaia di vittime civili, il tempo della sola testimonianza è finito. Serve una presa di posizione netta: il riconoscimento dello Stato di Palestina, l’interruzione dell’export militare verso Israele, il sostegno effettivo agli organismi internazionali che indagano sui crimini di guerra.
Il ministro Tajani ha scelto una linea di prudenza che, nel contesto attuale, somiglia più a una ritirata che a una mediazione. È una scelta legittima, ma che comporta un prezzo politico e morale. Perché ci sono momenti in cui tacere, o parlare senza agire, equivale a stare dalla parte sbagliata della Storia. E la Storia, lo sappiamo, non assolve chi ha scelto il silenzio.