Frankenstein di Guillermo Del Toro: il sogno di una vita non convince del tutto

Il regista messicano porta finalmente al cinema il suo adattamento del capolavoro di Mary Shelley, presentato in concorso a Venezia e in arrivo su Netflix. Un’opera ambiziosa, personale e visivamente affascinante, che però lascia un retrogusto amaro.

frankenstein

Guillermo Del Toro ha inseguito per oltre dieci anni il desiderio di portare sul grande schermo Frankenstein, il romanzo che Mary Shelley scrisse a soli 19 anni tra il 1816 e il 1817. Dopo aver realizzato il suo Pinocchio in stop-motion, il regista messicano ha finalmente concretizzato anche questo sogno, grazie al sostegno di Netflix. A Venezia, durante la conferenza stampa, ha definito il film il più personale della sua carriera, dichiarando di aver riversato tutto il suo amore e la sua anima nel progetto.

Il risultato, però, non ha convinto tutti: pur concorrendo per il Leone d’Oro e pur mostrando la passione che Del Toro nutre per il materiale originale, l’opera si rivela più fragile di quanto ci si aspettasse.

Frankenstein: un film analogico in tempi digitali

Tra le scelte più coraggiose di Del Toro c’è la decisione di ridurre al minimo la computer grafica. L’autore ha voluto privilegiare un approccio “analogico”, fatto di scenografie fisiche, trucco prostetico e atmosfere gotiche costruite con cura artigianale. Questo aspetto restituisce al film un fascino d’altri tempi, coerente con l’immaginario del regista.

Tuttavia, la costruzione tecnica e visiva non basta a mascherare i limiti di scrittura: la sceneggiatura si sviluppa in maniera lineare, i dialoghi sono spesso prevedibili e il ritmo di quasi due ore e mezza finisce per appesantire la visione.

Tra amore e cecità creativa

Del Toro sembra aver dato più importanza al proprio legame personale con la creatura di Mary Shelley che al coinvolgimento dello spettatore. Questo trasporto emotivo, per quanto sincero, rischia di offuscare la lucidità necessaria a trasformare il progetto in un capolavoro.

Il film si divide in due parti: la prima raccontata dal punto di vista di Victor Frankenstein, interpretato da Oscar Isaac con intensità e carisma; la seconda dal lato della creatura, affidata a Jacob Elordi, trasformato da un trucco che lo rende allo stesso tempo alieno e fragile. Una scelta che sulla carta appare originale, ma che nella pratica appesantisce ulteriormente la narrazione.

Padri, figli e mostri incompresi in Frankenstein

Del Toro reinterpreta la storia di Shelley come un dramma familiare: non più soltanto il mito del dio che gioca con la vita, ma la parabola di un padre e un figlio destinati al conflitto. La figura paterna di Victor, segnata a sua volta da un’infanzia traumatica, si riflette nel rapporto con la creatura, che evolve come un adolescente ribelle in cerca di identità.

Questa lettura potrebbe arricchire l’opera, ma rimane espressa più con parole che con immagini. I dialoghi finiscono per trasformarsi in lunghi monologhi filosofici, dove i personaggi spiegano le emozioni invece di farle percepire allo spettatore.

Bellezza visiva senza idee forti

Come sempre, Del Toro dimostra una grande abilità nella costruzione di mondi: atmosfere gotiche, scenografie che mescolano il barocco al vapore steampunk, esplosioni di azione che alternano corpi scagliati in aria, lupi dilaniati e tempeste di fulmini. Eppure, paradossalmente, è proprio qui che il film mostra la sua debolezza: a mancare non sono le immagini spettacolari, ma quelle memorabili.

Non c’è una scena che resti impressa come marchio visivo, nessun momento destinato a diventare iconico. Se Pinocchio aveva conquistato per profondità e poesia, Frankenstein resta in superficie, incapace di sviluppare fino in fondo il tema centrale: l’impossibilità della creatura di morire e il suo rapporto con il lutto.

L’ombra di Tim Burton

Il parallelo con Tim Burton è inevitabile. Già in Crimson Peak si intravedeva l’influenza del regista americano, ma qui diventa evidente: il Frankenstein di Del Toro sembra ricalcare l’archetipo di Edward mani di forbice, con la creatura malinconica, incompresa e accusata ingiustamente. Un mostro che riflette la condizione di chi si sente diverso, non integrato nella società.

Un’idea potente, ma che Burton aveva tradotto in pura immagine e atmosfera, mentre Del Toro la esprime in maniera didascalica, affidandosi a spiegazioni verbali invece che al linguaggio visivo.

Un’occasione mancata

Alla fine, il Frankenstein di Guillermo Del Toro resta un’opera appassionata e sincera, ma non un capolavoro. È un film che si guarda con rispetto per l’impegno del suo autore, ma che non riesce a trasmettere quell’emozione profonda che ci si aspettava.

Un lavoro ambizioso, che aggiunge un nuovo tassello alle decine di adattamenti già esistenti del romanzo di Mary Shelley, senza però spiccare come il definitivo. Forse, paradossalmente, è proprio l’eccesso di amore del regista a rendere quest’opera meno universale e più autoreferenziale.