
L’accordo di pace su Gaza, promosso e celebrato da Donald Trump come la “svolta storica del Medio Oriente”, si trova già sull’orlo del collasso. Bastano poche ore per comprendere quanto fosse fragile, illusoria e politicamente costruita la tregua firmata tra Israele e Hamas. L’uccisione di sei palestinesi da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), accusati di essersi “avvicinati ai soldati israeliani” a Shejaiya, segna il primo, ma forse non l’ultimo, grave colpo alla credibilità di un accordo che si reggeva su equilibri impossibili.
Il paradosso della “ritirata controllata”
Secondo la versione ufficiale israeliana, i palestinesi avrebbero attraversato la linea del cessate il fuoco, ignorando gli avvertimenti. Ma anche se la dinamica resta opaca, è evidente che l’incidente mette in discussione il presupposto stesso della tregua: la fiducia reciproca. Un cessate il fuoco, per definizione, si fonda su un riconoscimento minimo di legittimità tra le parti. Qui invece non c’è fiducia, né equilibrio, né mediazione effettiva: solo una fragile sospensione delle ostilità imposta dall’esterno, in nome di interessi geopolitici che poco hanno a che vedere con la pace dei popoli.
Israele, pur avendo formalmente ritirato parte delle sue truppe, continua a mantenere il controllo del 53% di Gaza. È una “ritirata controllata”, non una restituzione di sovranità. In questo scenario, parlare di “pace” significa deformare la realtà: Gaza resta un territorio occupato, sotto sorveglianza militare, con confini tracciati dalle armi e un’economia allo stremo. La vita quotidiana dei civili palestinesi resta prigioniera di restrizioni, check-point e ordini militari. E ora, con queste nuove uccisioni, anche il labile senso di tregua si dissolve.
Il calcolo politico di Trump
Donald Trump, che aveva annunciato il cessate il fuoco come la fine “della guerra di Gaza”, aveva bisogno di una vittoria simbolica. Dopo mesi di tensioni internazionali, il suo “piano di pace” appariva come una carta vincente in vista delle elezioni di medio termine. Ma ogni accordo che ignora le radici politiche e umane del conflitto è destinato a fallire. E questo, ancora una volta, è accaduto. L’amministrazione americana ha imposto un compromesso costruito più sull’immagine che sulla sostanza, più sulle esigenze elettorali che su una reale riconciliazione.
Le vittime invisibili della tregua
Il messaggio dell’IDF, “Non avvicinatevi alle truppe”, suona come un monito che riassume l’intero fallimento diplomatico: la pace è un campo minato, e il semplice avvicinarsi può costare la vita. È un linguaggio che non appartiene alla diplomazia, ma alla deterrenza. E finché la sicurezza di uno sarà costruita sull’assoggettamento dell’altro, non esisterà tregua che possa reggere.
Una tregua imposta non è una pace
Non si tratta di una semplice “violazione tecnica” del cessate il fuoco, come sostengono alcune fonti israeliane. È l’emblema di un sistema politico e militare che non contempla la parità, ma soltanto la subordinazione. E la pace, quando è imposta da chi detiene la forza, non è che un’illusione destinata a rompersi al primo colpo di fucile.
Il sogno infranto della riconciliazione
L’accordo di Trump, celebrato come un trionfo della diplomazia americana, è in realtà il riflesso di una visione miope e unilaterale: quella che considera la pace come un atto di potere, e non come un processo di giustizia. Il sangue versato ieri a Shejaiya dimostra che non si può pacificare un territorio senza ascoltarne la voce, e che ogni tregua costruita su un equilibrio di paura è destinata a dissolversi nella polvere.