C’è una differenza sostanziale tra l’estemporaneità di un leader e la dottrina di una superpotenza. E’ da tempo che Donald Trump ha rovesciato sull’Europa un misto di ostilità e disprezzo, spesso liquidato come retorica da comizio o sfogo estemporaneo. Ma oggi quella retorica è diventata politica ufficiale degli Stati Uniti. Questo è il punto di svolta. E questo è il punto che l’Europa non può più permettersi di eludere.
Il nuovo documento strategico pubblicato dalla Casa Bianca rappresenta un salto di qualità, o, meglio, di quantità, la quantità di distanza che Washington è disposta ad accumulare nei confronti del suo alleato storico. Per la prima volta in otto decenni, gli Stati Uniti dichiarano esplicitamente che non intendono più garantire la sicurezza del continente. Non come prima, non come sempre. E non senza condizioni politiche che, implicitamente, chiedono ai Paesi europei di legittimare le forze sovraniste e destrorse che Trump considera i suoi veri interlocutori naturali.
Il disprezzo, ora, ha un timbro ufficiale.
Washington accusa l’Unione Europea di soffocare la libertà politica, definisce alcuni Stati membri della NATO potenzialmente “a maggioranza non europea”, e ribadisce che gli alleati sarebbero parassiti strategici. È un linguaggio che va oltre il dissenso politico, è un’offensiva morale, culturale e ideologica. E questa offensiva avviene mentre la Russia minaccia apertamente l’Europa e mentre i governi del continente accelerano, con ritardi ormai imbarazzanti, sulla costruzione di capacità difensive autonome.
Il punto non è che l’Europa sia impreparata. Lo è. Il punto non è che dipenda dagli Stati Uniti. Dipende, e molto più di quanto voglia ammettere. Il punto è che la Casa Bianca sta trasformando questa dipendenza in una leva politica, o l’Europa si riallinea alle priorità americane, o sarà lasciata sola. Questa non è una frattura congiunturale, è un cambio di paradigma.
Di fronte a tutto questo, le capitali europee scelgono il silenzio. O meglio, la diplomazia dell’apnea. Lasciare Trump sbraitare, aspettare che passi, stringere i denti e sorridere. La realpolitik del sopravvivere. Ma sopravvivere non è una strategia.
Charles Kupchan, professore di affari internazionali presso la Georgetown University, ha ragione quando afferma che l’Europa si trova davanti alla sua più grande prova politica degli ultimi decenni. Non per decidere se rompere con gli Stati Uniti, un’idea che nessuno considera realistica, ma per capire se vuole smettere di essere un protettorato militare con ambizioni da potenza economica. L’integrazione europea, costruita per limitare le pulsioni distruttive del continente e garantire una stabilità senza precedenti, non può reggere all’infinito se la sua architettura strategica rimane esternalizzata a Washington.
La domanda, allora, è semplice, l’Europa vuole davvero essere padrona del proprio destino? O preferisce restare un progetto incompiuto, forte finché gli americani lo desiderano, vulnerabile quando non lo desiderano più?
Il nuovo documento della Casa Bianca ha un merito, paradossale ma innegabile, costringe l’Europa a guardarsi allo specchio. E lo specchio è crudele. Vede un continente ricco ma insicuro, unito ma esitante, consapevole dei pericoli ma incapace di emanciparsi.
Forse è davvero arrivato il momento del “risveglio europeo”. Ma un risveglio non è un comunicato stampa né una scrollata di indignazione. È una scelta. Una scelta di investimenti, di responsabilità, di visione.
Trump ha reso chiaro ciò che molti in Europa fingevano di non capire, l’ombrello americano non è eterno. E ora, per la prima volta, non è nemmeno scontato.
Il bivio è qui. E non verrà un’altra occasione per ignorarlo.
