La fame come arma di sterminio

In assenza di azioni concrete da parte della comunità internazionale, Israele ha trasformato l’assedio di Gaza in uno strumento di annientamento lento e deliberato, utilizzando la fame come ulteriore arma contro una popolazione civile già devastata.

La madre del palestinese Mohammed Al-Motawak, ucciso domenica dal fuoco israeliano mentre cercava di ricevere aiuti, piange il suo corpo durante il suo funerale all'ospedale Al-Shifa, a Gaza City

Non bastavano le bombe. Non bastava l’assedio. Non bastavano le decine di migliaia di morti. Ora a Gaza si muore per fame. E si muore cercando aiuto.

In questi giorni, altre decine di palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano cibo o si trovavano nei pressi dei centri di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation. Alcuni sono caduti sotto i colpi delle forze israeliane, altri sono morti di denutrizione. Altri ancora non sono nemmeno stati sepolti come impone la tradizione islamica: i sudari funerari bianchi scarseggiano. Troppe le vittime, troppo stretto l’assedio.

La carestia, quella parola che pensavamo relegata ai libri di storia o ai paesi più dimenticati del pianeta, è oggi una realtà nel cuore del Medio Oriente, a due passi dall’Europa. Non è una carestia dovuta a una siccità. Non è il frutto di una crisi climatica o di un collasso interno. È una carestia artificiale, deliberatamente indotta. Un atto politico. Un crimine.

Israele nega ogni responsabilità e incolpa i terroristi di Hamas per le sofferenze della popolazione di Gaza. Ma i numeri e le immagini raccontano un’altra storia. Oltre mille persone sono state uccise mentre tentavano di raggiungere gli aiuti da maggio ad oggi. Le Nazioni Unite chiedono vie sicure, accesso via terra, coordinamento umanitario. Israele risponde con raid, interruzioni, attese estenuanti. Le autorità di Gaza denunciano che più di 600 camion sono stati saccheggiati, a dimostrazione che la fame ha superato ogni limite di ordine e controllo. Si sopravvive saccheggiando, o si muore aspettando.

La logica dietro questa sistematica afflizione è brutale nella sua semplicità: chi non si elimina con le bombe, lo si affama. Chi non muore sotto le macerie, muore lentamente, con lo stomaco vuoto, la bocca secca, e la dignità calpestata. È l’uso della fame come arma strategica, come strumento di pulizia etnica. È la guerra dopo la guerra, il genocidio a bassa intensità ma ad alta efficacia.

Eppure, in mezzo a questo orrore, non si intravede un ripensamento, né un reale sforzo diplomatico. Gli Stati Uniti, sostenitori della Gaza Humanitarian Foundation, continuano a fornire armi a Israele mentre distribuiscono farina sotto scorta armata. L’Europa balbetta, divisa tra retoriche astratte e paura di contraddire l’alleato atlantico. Nessuno, finora, ha avuto il coraggio di nominare ciò che sta accadendo per quello che è: uno sterminio per fame, lento, sistematico, vigliacco.

Non si può più parlare di “effetti collaterali” o di “danni inevitabili” in una guerra. Quando si impedisce deliberatamente l’accesso al cibo. Quando si spara su chi cerca farina. Quando si lascia morire un bambino al giorno per fame, per settimane, per mesi, allora non si è più nella logica della difesa. Si è nella logica del massacro.

La storia non perdonerà questa complicità. E chi oggi tace, per calcolo, per paura, o per cinismo, sarà ricordato non come spettatore, ma come complice.

È tempo di guardare Gaza per ciò che è: il più grande campo di morte a cielo aperto del XXI secolo. Un luogo in cui l’umanità si spezza ogni giorno, e dove chi sopravvive lo fa contro ogni legge della guerra, della pietà e della ragione.

La fame a Gaza non è una tragedia inevitabile. È un progetto. Ed è nostro dovere denunciarlo.