
Le ultime interviste rilasciate da Marina Berlusconi hanno aperto una crepa evidente nel già fragile equilibrio del centrodestra. Non si tratta solo di toni o di stile: è una divergenza profonda di visione politica, che mette a nudo la distanza tra due eredi dello stesso nome e, almeno in teoria, della stessa eredità culturale e ideale.
Da una parte, Marina: sobria, lucida, quasi accademica nel delineare un’idea di liberalismo moderno, europeo, attento ai diritti civili, alla dignità della persona, alla necessità di un’Europa più forte e coesa. Il suo è un discorso che potrebbe tranquillamente trovare cittadinanza in un centrosinistra riformista, o persino nei testi del Partito d’Azione e del radicalismo storico italiano. Non è solo una questione di registro: sul merito, immigrazione, diritti, governance globale, la sua visione si discosta nettamente dalla linea sovranista del governo Meloni e della destra attuale.
Dall’altra parte, Pier Silvio: più cauto, più aziendalista, ma nei fatti perfettamente allineato con l’asse Meloni-Salvini. Emblematiche le sue parole sullo ius scholae: “Non è una priorità”, ha detto. Più che una posizione politica, una ritirata strategica. Un messaggio chiaro ad Antonio Tajani e a Forza Italia: basta tentazioni centriste, il nostro elettorato guarda altrove. E non a caso, da Pechino, Matteo Salvini ha subito applaudito.
Ma Pier Silvio non si è fermato lì. Nella stessa occasione ha riservato parole poco lusinghiere a Matteo Renzi, definendolo “intelligente e bravo, ma ormai privo di peso politico e di credibilità elettorale”. Un giudizio netto, che ha avuto conseguenze immediate: Renzi ha annunciato la rottura del suo contratto editoriale con Mondadori, sancendo così una frattura anche sul piano culturale e mediatico. È un segnale ulteriore della direzione intrapresa dall’ad di Mediaset: chiudere con il passato riformista per saldare l’asse con il blocco conservatore e sovranista.
Il paradosso è evidente. Marina incarna con coerenza l’anima liberale, cosmopolita e innovatrice che fu il cuore della Forza Italia del 1994. Pier Silvio, invece, sembra voler completare la fusione con il blocco identitario, contribuendo allo svuotamento di quel contenitore europeista e riformista che una volta era l’identità stessa del berlusconismo.
In mezzo, Antonio Tajani prova a tenere insieme i cocci. Minimizza le divergenze, parla di “perfetta sintonia” là dove è chiaro a tutti che si è consumato uno strappo. Ma le parole dei figli di Silvio non sono mai casuali. E oggi, in assenza del padre, assumono il valore di segnali lanciati verso la guida politica e culturale del post-berlusconismo.
Marina, con il suo intervento, ha offerto una sponda a chi, nel centrosinistra e nell’area centrista riformista, è alla ricerca di una nuova offerta politica capace di superare il bipolarismo tossico. Pier Silvio, al contrario, sembra voler rassicurare i partner di governo: niente scossoni, niente aperture verso una società in trasformazione.
Il confronto tra i due fratelli non è solo familiare. È il riflesso di una frattura più ampia, che attraversa l’Italia: tra chi guarda al futuro con gli strumenti della responsabilità globale e della ragione, e chi preferisce rifugiarsi nel rassicurante recinto dell’identità e della chiusura sovranista.
Due fratelli, due visioni. Solo una ha lo sguardo rivolto al futuro, l’altra si piega all’equilibrismo del presente. In gioco non c’è solo l’eredità di un nome, ma la direzione che prenderà una parte rilevante del paese. E il tempo delle ambiguità sta per finire.