Concessioni balneari: rendite d’oro, prezzi da saldo.

Canoni irrisori, profitti milionari: lo Stato svende le spiagge mentre pochi concessionari incassano senza concorrenza né regole.

In Italia, godersi il mare può diventare un privilegio, ma gestirlo è un affare sicuro. Mentre i cittadini pagano caro per un ombrellone, lo Stato incassa cifre irrisorie per l’uso di un bene pubblico tra i più preziosi: le spiagge.

Concessioni balneari ventennali a canoni spesso inferiori a quelli di un piccolo garage, gare d’appalto inesistenti da anni, e un sistema che premia pochi privilegiati a scapito della collettività. Dietro l’ombrellone c’è un problema di trasparenza, equità e concorrenza che l’Italia non riesce – o non vuole – risolvere. La gestione del litorale nazionale è diventata il simbolo di un paradosso tutto italiano: rendite private su risorse pubbliche, e nessuna voglia di cambiare.

 Prezzi ridicoli per ricavi milionari

Nel 2022 lo Stato ha incassato circa 103 milioni di euro da oltre 12.000 concessioni balneari, pari a una media di 8.500 euro l’anno. Ma molti stabilimenti fatturano tra i 200.000 e i 300.000 euro a stagione, e nelle località di lusso si superano tranquillamente il milione di euro.

Il caso simbolo è il Twiga Beach Club in Versilia: ricavi oltre i 10 milioni l’anno, canone versato allo Stato 17.000 euro. Lo stesso Flavio Briatore ha ammesso che una cifra equa sarebbe almeno 500.000 euro.

In Costa Smeralda, ad Arzachena, 59 concessioni pagano in tutto 19.000 euro, circa 322 euro ciascuna. A Porto Giunco, uno stabilimento incassa 1 milione di euro e ne versa solo 4.386 allo Stato: appena lo 0,4% del fatturato. Il Forte Village, resort da 47 ettari, paga 5.551 euro l’anno.

Secondo la Corte dei Conti, il canone medio è fermo a circa 6.000 euro e non tiene conto del valore reale delle aree: posizione, estensione dell’area, e incassi effettivi. Una spiaggia sul mare può costare, in termini di concessione, meno di un affitto in periferia.

Questo squilibrio genera un trasferimento silenzioso ma enorme di ricchezza dal pubblico al privato: rendite garantite, profitti assicurati, zero concorrenza. E a perderci è la collettività.

Una concorrenza che non c’è: il blocco delle gare

Dal 2006 l’Italia non organizza più gare pubbliche per l’assegnazione delle concessioni balneari, in palese violazione della direttiva europea Bolkestein che impone trasparenza e concorrenza nell’uso dei beni pubblici.

La norma prevedeva che, dal 2009 in poi, le concessioni fossero messe a bando. Invece, in Italia si è scelto di prorogare automaticamente quelle esistenti, creando un regime di fatto perpetuo per molti gestori.

Questo ha impedito l’accesso a nuovi operatori, scoraggiato gli investimenti e frenato l’innovazione nel settore. Nessun incentivo a migliorare i servizi, abbassare i prezzi o introdurre modelli di gestione più sostenibili.

Nel frattempo, Bruxelles ha aperto una procedura di infrazione contro l’Italia e diverse sentenze, tra cui quella del Consiglio di Stato nel 202, hanno stabilito che le proroghe sono illegittime. Ma il blocco resta, tra rinvii, emendamenti e compromessi.

 I danni per lo Stato e per i cittadini

Il sistema delle concessioni balneari costa caro, ma non a chi ci guadagna: a pagare sono i cittadini. Lo Stato incassa briciole da stabilimenti che fatturano milioni, rinunciando ogni anno a centinaia di milioni di euro. In più, l’Italia è sotto procedura d’infrazione europea e rischia multe milionarie per non aver rispettato le regole sulla concorrenza: soldi pubblici che servono a coprire privilegi privati.

Nel frattempo, oltre il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti. L’accesso al mare diventa un lusso, le spiagge libere si riducono e quelle che restano sono spesso trascurate e sovraffollate. Dove manca la concorrenza, la rendita domina: zero incentivi a migliorare, zero trasparenza, massimo profitto. Ne fa le spese anche l’ambiente, tra erosione, cementificazione e sfruttamento delle coste.

Invece di sanare questa evidente stortura, l’esecutivo italiano ha preferito difendere l’equilibrio politico interno, cedendo alla pressione delle lobby balneari, anche a costo di sacrificare il diritto di accesso a un bene pubblico e la libera iniziativa economica di chi vorrebbe entrare nel mercato. Giovani e nuove imprese restano fuori, schiacciati da un sistema chiuso, bloccato, inaccessibile.

Un mare gestito da pochi, pagato da tutti.

Il mare è di tutti?

La domanda è semplice, ma la risposta è diventata politicamente scomoda: le spiagge sono beni comuni o rendite di pochi?

Il mare appartiene a tutti, ma in Italia sembra appartenere solo a chi ha ricevuto una concessione anni fa e non l’ha più mollata. Recuperare il controllo pubblico di questo patrimonio non significa penalizzare chi ha investito, ma restituire al sistema trasparenza, equità e giustizia intergenerazionale. Affidare le spiagge con gare pubbliche, canoni equi e progetti sostenibili non è ideologia: è buona amministrazione.

Perché in fondo, un ombrellone a 30 euro al giorno non può poggiare su una spiaggia che lo Stato affitta a 3 euro al metro quadro l’anno.