Colpi d’avvertimento contro la diplomazia: Israele vuole il silenzio del mondo

A Jenin non è stato un errore: è stata una minaccia al cuore della diplomazia internazionale

Jenin

C’è un punto oltre il quale la diplomazia, se vuole restare tale, non può più permettersi di tacere. A Jenin, nel cuore della Cisgiordania, i fucili dell’esercito israeliano non hanno solo infranto il silenzio con dei “colpi di avvertimento”. Hanno colpito al cuore il principio stesso della presenza internazionale nei territori occupati: quello della testimonianza, della verifica, della denuncia.

La delegazione di oltre venti diplomatici, tra cui rappresentanti dell’Unione Europea, di diversi Paesi arabi, di Cina, India, Canada, Brasile, Turchia, non era lì per “curiosità” o per fare passerella. Era lì per osservare, con i propri occhi, la situazione umanitaria a Jenin, per documentare violazioni, per portare un minimo di presenza internazionale in uno scenario in cui la popolazione civile palestinese è ormai lasciata senza difese.

E cosa hanno ricevuto in cambio? Spari. Spari veri, non metaforici. Non frasi sgarbate, non tensioni verbali: proiettili. È inammissibile che una missione diplomatica accreditata, in piena funzione, venga presa di mira, in modo diretto o “avvertente”, dalle forze armate del Paese occupante.

Israele, da parte sua, minimizza: si sarebbe trattato di “un’incomprensione”, la delegazione avrebbe “oltrepassato il percorso previsto”. Ma anche se fosse vero, come può giustificarsi una reazione armata verso diplomatici disarmati e visibilmente riconoscibili? La risposta è semplice: non può.

L’esercito israeliano sapeva benissimo chi aveva davanti. Quel gesto non è stato un errore. È stato un messaggio. Un’intimidazione. Un chiaro avvertimento: non mettete piede qui, non testimoniate, non denunciate. Israele non vuole osservatori, non vuole voci esterne che raccontino ciò che accade nei campi profughi, nei checkpoint, nelle città martoriate della Cisgiordania o nella Gaza assediata. Vuole il silenzio. E prova a imporlo con le armi.

Le reazioni dei governi coinvolti sono arrivate, ma sono insufficienti. Convocare l’ambasciatore israeliano è il minimo sindacale. Serve ben altro. Serve una risposta collettiva, pubblica e ferma. Perché colpire dei diplomatici significa colpire il diritto internazionale. Significa dichiarare irrilevante la Convenzione di Vienna. Significa mettere a rischio l’intero sistema di relazioni che tiene in piedi la comunità internazionale.

Ma forse, ed è qui il nodo più profondo, Israele sente di potersi permettere tutto questo proprio perché sa che, alla fine, verrà comunque giustificata, o quantomeno lasciata impunita. È lo stesso meccanismo che ha reso possibile il blocco degli aiuti a Gaza per oltre 80 giorni, lasciando la popolazione senza cibo, acqua, medicine. È la logica dell’impunità, che si nutre di silenzi, ambiguità, doppi pesi e misure.

La visita a Jenin era una missione ufficiale. Gli spari erano reali. E la paura vissuta dai diplomatici, autentica. Quel momento deve segnare uno spartiacque. O la comunità internazionale difende con forza la legittimità della propria presenza in Palestina, o ammette di essersi arresa al diktat di chi vuole continuare a operare senza testimoni.

La richiesta, dunque, è semplice e non più procrastinabile: protezione internazionale per i civili palestinesi e per il personale diplomatico nei territori occupati. E soprattutto, un’indagine internazionale indipendente sull’accaduto, con responsabilità chiare e conseguenze concrete.

Perché quando si spara ai diplomatici, si spara anche alla possibilità stessa della pace.