Cinque per cento: una soglia, non un dogma

Il 5% del Pil per la difesa non è sostenibile per molti Paesi. Serve una scelta politica, non automatismi

rutte

Alla vigilia del vertice NATO all’Aja, si consuma uno scontro che va ben oltre le cifre contabili: la soglia simbolica e politica del 5% del Pil da destinare alla spesa militare. Un obiettivo voluto con forza dagli Stati Uniti, sostenuto dal nuovo corso trumpiano e accolto dall’Alleanza Atlantica come “parametro di riferimento”. Ma che, alla prova della realtà, rischia di disgregare più che rafforzare l’unità occidentale.

La frattura si è aperta in modo clamoroso con la posizione della Spagna. Il premier Pedro Sánchez ha pubblicamente rivendicato una “flessibilità” ottenuta dalla NATO, supportata da una lettera firmata dal segretario generale Mark Rutte, in cui si parla di “percorso sovrano” per raggiungere gli obiettivi di capacità. Madrid intende firmare la dichiarazione finale, ma senza impegnarsi a raggiungere meccanicamente il 5%. Poco dopo, anche la Slovacchia ha annunciato una posizione analoga: sì alla cooperazione, no a vincoli rigidi. Una presa di distanza netta, motivata anche con il richiamo alla necessità di risanare i conti pubblici e migliorare il tenore di vita interno.

In questa crepa si riflette un conflitto più ampio: tra visione strategica e sostenibilità sociale, tra imperativi geopolitici e vincoli di bilancio. Perché se è vero che la guerra in Ucraina ha spinto l’Europa a ripensare il proprio ruolo nella sicurezza collettiva, è altrettanto evidente che non tutti i Paesi sono nelle condizioni di aumentare drasticamente la spesa militare senza sacrifici pesanti in altri settori chiave.

È il caso dell’Italia. L’attuale livello di spesa si aggira attorno al 1,5-2% del Pil. Portarlo al 5% significherebbe destinare decine di miliardi di euro in più ogni anno alla difesa. Dove trovarli? Tagliando la sanità? Riducendo ulteriormente gli investimenti in scuola e ricerca? Fermando la transizione ecologica? Sono domande che meritano una risposta prima dell’adesione entusiasta a qualsiasi tabella di marcia militare.

Il governo Meloni, con dichiarazioni allineate a Washington, ha espresso sostegno all’obiettivo, ma non è chiaro con quali coperture e in quale tempistica. Eppure, proprio la posizione di Spagna e Slovacchia potrebbe offrire all’Italia una sponda diplomatica per negoziare un percorso più realistico. Anche perché, come hanno fatto notare fonti madrilene, la dichiarazione finale del vertice prevede una “ambiguità costruttiva” e la possibilità di adattare i percorsi nazionali agli obiettivi di capacità. In altri termini: conta cosa si è in grado di fare, non solo quanto si spende.

Il pressing degli Stati Uniti e del segretario generale Rutte non lascia spazio a illusioni. L’obiettivo del 5% è concepito come uno spartiacque ideologico, una cartina di tornasole della fedeltà all’Alleanza. Ma trasformarlo in un dogma può generare l’effetto opposto: mettere in crisi la coesione politica e sociale dei Paesi membri, soprattutto quelli più esposti a tensioni economiche e debolezze strutturali.

In nome della sicurezza si rischia di sacrificare le basi stesse della coesione interna. Ma una difesa credibile, in un’Europa democratica, non può fondarsi solo su carri armati e percentuali. Deve tenere conto anche di ospedali, scuole, salari e giustizia sociale. L’ossessione per il riarmo non può diventare la misura unica del nostro impegno comune. Sarebbe un errore strategico. E, soprattutto, un errore politico.