Castro è a casa, Trentini no

Il rilascio del francese Castro mostra cosa può ottenere chi ha il coraggio di dissociarsi dall’escalation americana.

Il cooperante umanitario italiano Alberto Trentini

La liberazione di Camilo Castro, cittadino francese detenuto per mesi senza accuse nel carcere venezuelano di El Rodeo I, è qualcosa di più di un successo consolare, è una dimostrazione di potenza diplomatica. Parigi ha ottenuto ciò che sembrava impossibile, riportare a casa un proprio connazionale nel pieno di un’escalation militare tra Stati Uniti e Venezuela. E lo ha fatto dopo aver preso una posizione chiara, condannare pubblicamente le operazioni statunitensi nei Caraibi come una violazione del diritto internazionale.

La Francia ha parlato con voce autonoma. L’Italia, per ora, no.

Il caso Trentini e il peso dell’inerzia italiana

È questa la dolorosa sproporzione che emerge accanto alla vicenda, ben più drammatica, di Alberto Trentini, cooperante umanitario italiano da un anno detenuto nello stesso penitenziario in cui era rinchiuso Castro. Trentini è prigioniero senza accuse formalizzate, senza processo, senza adeguati contatti con l’esterno. Un uomo che ha dedicato la propria vita alle periferie del mondo lasciato solo in una delle crisi più insensate della diplomazia contemporanea.

La domanda non riguarda la volontà, certamente presente, di funzionari e diplomatici italiani. Riguarda la cornice politica entro cui quei funzionari sono costretti a muoversi. Perché la liberazione di Castro non è avvenuta malgrado il contesto internazionale, ma attraverso di esso. Barrot ha condannato le operazioni statunitensi e lo ha fatto nel momento in cui la tensione tra Washington e Caracas era al culmine. È un gesto che ha chiarito due punti, la Francia non intende farsi dettare la linea nella regione; e Parigi è pronta a distinguere le proprie posizioni da quelle dell’alleato americano quando è in gioco la vita di un suo cittadino.

L’Italia e il vincolo invisibile dell’allineamento atlantico

L’Italia, invece, continua a muoversi in un cono d’ombra. Non condanna, non critica, non prende distanze. Soprattutto, non esplicita che la tutela dei propri cittadini viene prima della deferenza strategica verso Washington. E nel gioco degli equilibri percepiti, questo silenzio finisce per essere interpretato come un allineamento. Non un delitto, certo. Ma un errore.

Non si tratta di rompere con gli Stati Uniti, né di strizzare l’occhio a Maduro. Si tratta di esercitare sovranità diplomatica. La stessa che la Francia ha mostrato senza timori, senza bisogno di amplificatori e senza rinnegare la propria collocazione occidentale. Perché la diplomazia non si misura con la fedeltà, ma con l’efficacia.

Efficacia che, purtroppo, all’Italia oggi manca.

Fare ciò che è “doveroso e necessario”

La madre di Trentini, Armanda Colusso, lo ha ricordato con parole che non possono essere fraintese, serve “fare ciò che è doveroso e necessario”. La pressione mediatica cresce, gli appelli si moltiplicano, ma senza un segnale politico forte, non necessariamente ostile, ma chiaro, lo stallo continuerà.

Se Parigi insegna qualcosa, è proprio questo, il contesto internazionale non è un ostacolo immobile. Può diventare una leva. Ma per usarla bisogna decidersi a farlo. Pronunciare parole che non siano scontate, richiamare il rispetto del diritto internazionale, ribadire che ogni escalation militare minaccia la sicurezza collettiva, rivendicare la centralità della tutela dei connazionali.

Non è radicalità, è diplomazia. Quella vera.

Per Alberto Trentini, adesso

Tra un balletto e l’altro sui palchi elettorali è tempo che il governo lo capisca. E che Alberto Trentini non resti un nome da ricordare, ma un cittadino da riportare a casa. Subito.