
In un’epoca in cui la democrazia dovrebbe essere un presidio inviolabile, assistiamo invece a un inquietante ritorno dell’intolleranza verso la critica, soprattutto quando proviene dal mondo dell’arte e della cultura. L’ultimo, fragoroso esempio arriva dagli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump ha sferrato un attacco personale e velenoso contro Bruce Springsteen, definito “idiota invadente” e “prugna secca”, reo di aver espresso, dal palco del suo tour europeo, preoccupazioni sullo stato della democrazia americana. Lo stesso Trump aveva già rivolto un commento sessista e sprezzante a Taylor Swift, colpevole di aver sostenuto candidati democratici nelle scorse elezioni.
Non si tratta di semplici invettive estemporanee. È un copione preciso: delegittimare la voce dell’artista, screditarne il valore, colpirne l’immagine per ridurre la portata delle sue parole. È un tentativo brutale di mettere il bavaglio a chi osa dissentire.
Springsteen ha parlato con lucidità, denunciando i rischi dell’autoritarismo e l’erosione dei diritti civili. Trump ha risposto non con argomenti, ma con insulti. Questo scambio asimmetrico rivela un tratto pericoloso: il fastidio del potere verso la cultura che non si piega.
E purtroppo non è un fenomeno isolato né esclusivamente americano. Anche in Italia si sta affermando una linea che guarda con sospetto, se non con aperta ostilità, chi, nel mondo dello spettacolo, esprime opinioni critiche nei confronti delle istituzioni. Basti pensare al recente intervento del ministro della Cultura Alessandro Giuli, che ha pubblicamente stigmatizzato alcuni attori e conduttrici televisive per averlo criticato. L’effetto è il medesimo: ridurre al silenzio attraverso la delegittimazione.
Ma gli artisti, da sempre, sono le antenne sensibili della società. Springsteen, come De Niro, come la stessa Taylor Swift, esercitano un diritto, quello di parola, e un dovere morale: parlare quando la democrazia vacilla. La cultura non è intrattenimento inoffensivo. È riflessione, coscienza critica, opposizione.
Colpire chi la rappresenta significa tentare di spegnere quella luce. E se oggi il bersaglio sono le rockstar, domani potrebbe toccare a giornalisti, scrittori, registi, docenti. Non è questione di simpatia politica. È questione di libertà. Quando un presidente o un ministro alzano la voce contro un attore o un cantante, non stanno difendendo la dignità della carica: stanno abusando del proprio ruolo per intimidire.
Il rispetto per la critica, anche aspra, è il vero indice di maturità democratica. E un potere che teme le parole degli artisti è un potere che ha smarrito la propria sicurezza, la propria legittimità. La cultura, se libera, è sempre un contrappeso. E chi governa, se è davvero forte, non la teme. L’ascolta. Anche quando brucia.