Budapest arcobaleno: un avviso di sfratto a Orban

Oltre duecentomila in piazza contro l’Ungheria illiberale: la primavera del 2026 sarà un referendum sui diritti

Budapest

La cartolina che arriva da Budapest dopo il Pride di sabato 28 giugno, oltre duecentomila persone in strada nonostante il divieto governativo, è un ultimatum politico in technicolor: in Ungheria i diritti civili non sono più un tema di nicchia, ma la cartina di tornasole della democrazia stessa. Viktor Orbán l’ha capito fin troppo bene: ha definito la marcia «ripugnante e vergognosa», liquidandola come un complotto «orchestrato da Bruxelles».

Ma a contare non sono più le invettive, a contare sono le cifre, la costanza e la composizione di una piazza che per la prima volta unisce attivisti LGBTQ+, studenti, pensionati e imprenditori in un coro comune: basta con l’Ungheria illiberale.

Il premier ha reagito secondo copione: telecamere a riconoscimento facciale lungo il percorso, allarmi su presunte «provocazioni straniere», il repertorio vittimista del sovranismo balcanico. Eppure la massa arcobaleno non si è dispersa, anzi: è diventata l’istantanea più potente di un dissenso che non si lascia più intimidire.

Se il potere di Orbán si fonda sullo scontro permanente con l’Europa, stavolta il contraccolpo è arrivato da ogni capitale europea: un messaggio limpido, prima vengono i diritti, poi tutto il resto, che spezza l’isolamento in cui Fidesz, il partito di Orban, aveva confinato le minoranze.

Sul fronte interno, il contraccolpo si chiama Peter Magyar. L’ex delfino divenuto antagonista guida oggi il partito Tisza, primo nei sondaggi con il 42 % contro il 37 % di Fidesz.

Il suo programma, sbloccare i fondi UE congelati, ripulire la pubblica amministrazione, alleggerire il carovita, parla la lingua concreta che Orbán ha dimenticato, asserragliato nel bunker dei proclami patriottici e dei sospetti di corruzione. Gli ultimi scandali sessuali nel suo entourage, il forint zavorrato dall’inflazione doppia cifra e gli investimenti esteri in fuga compongono un cocktail letale. Nelle curve dello stadio politico ungherese non basta più cantare l’inno nazionale per cancellare i fischi.

Il Pride, dunque, va letto come prova generale di primavera 2026, quando l’Ungheria tornerà alle urne. A differenza del 2022, l’opposizione oggi ha un fronte, se non unitario, almeno convergente: liberali, verdi, socialisti e la nuova destra civica di Magyar condividono la stessa parola d’ordine: “Hazánk nem eladó”, la patria non è in vendita. E l’Europa, che in passato ha tollerato troppe derive di Budapest pur di evitare lo scontro, sembra aver trovato la voce: i fondi di coesione restano congelati finché lo stato di diritto resta un optional.

Da qui all’appuntamento elettorale mancano meno di dieci mesi. Il Pride ha mostrato che la società civile dispone del numero, del coraggio e ora anche della motivazione necessaria per convertire la protesta di piazza in voto di cambiamento. Resta da vedere se i partiti sapranno trasformare la spinta emotiva in proposta politica credibile, evitando personalismi e faide che in passato hanno regalato a Orbán maggioranze bulgare.

Il messaggio, comunque, è già stato consegnato: signor Primo Ministro, l’avviso di sfratto è sul tavolo. L’Europa, quella delle università Erasmus, delle imprese che investono e dei cittadini che marciano per la dignità, non accetterà più deroghe alle libertà fondamentali. E l’Ungheria che ha riempito le strade di Budapest non accetterà più di essere trattata come suddita. In primavera sapremo se l’elettorato, dopo quindici anni di dominio Fidesz, sceglierà di cambiare serratura a Palazzo Karmelita. Se così sarà, non serviranno più telecamere né veline governative: basterà la chiave, consegnata dalle urne, per aprire la porta di un nuovo capitolo europeo.