L’America ha scelto: addio mediazione

Con un raid mirato, Trump cancella quarant’anni di prudenza strategica e si schiera apertamente nel conflitto israelo-iraniano

Trump Iran

Con il bombardamento dei siti nucleari iraniani, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha compiuto un passo che rischia di compromettere gravemente la stabilità del Medio Oriente e di coinvolgere l’intero Occidente in una crisi che nessuno ha cercato, né desiderato. L’attacco, condotto con bombardieri Stealth e bombe a penetrazione profonda contro installazioni a Fordow, Natanz e Isfahan, è stato presentato come una risposta militare di precisione, ma appare nei fatti come un’escalation sconsiderata.

Quella che si configura è la prima azione militare diretta degli Stati Uniti contro l’Iran in oltre quarant’anni. Ed è avvenuta non in un contesto di autodifesa immediata, ma all’interno di un conflitto tra Israele e Iran che già stava generando tensioni pericolose. L’operazione rischia così di trasformare una crisi regionale in un confronto molto più ampio, con conseguenze difficilmente calcolabili.

Il presidente Trump ha rivendicato l’attacco con toni trionfalistici, parlando di una dimostrazione di forza senza precedenti. Ma al di là della retorica, restano le preoccupazioni legittime sollevate dai principali attori della regione. Paesi come Qatar, Arabia Saudita e Oman, storicamente attenti agli equilibri tra Washington e Teheran, hanno espresso seria preoccupazione e hanno invitato alla de-escalation, avvertendo del rischio di conseguenze catastrofiche.

Colpisce il fatto che sia proprio il Qatar, sede della più grande base militare americana in Medio Oriente, a mettere in guardia da una spirale fuori controllo. Allo stesso modo, l’Arabia Saudita e l’Oman, pur non alleati dell’Iran, hanno ritenuto necessario condannare l’attacco, sottolineando la necessità urgente di un ritorno al dialogo e alle vie diplomatiche. La loro posizione suggerisce che la misura è colma anche per chi, fino a ieri, si era tenuto vicino agli Stati Uniti.

Non va sottovalutato neppure l’aspetto tecnico: per quanto gli impianti nucleari iraniani siano stati colpiti senza causare, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, perdite radioattive gravi, la scelta di bombardare siti che ospitano materiale sensibile introduce un precedente pericoloso. La possibilità che in futuro simili attacchi producano danni ambientali o umanitari non può essere esclusa.

Il rischio più immediato, tuttavia, è quello politico. Con questa azione, gli Stati Uniti si sono di fatto schierati nel conflitto in corso, rinunciando a qualsiasi ruolo di mediazione. È una scelta che può isolare ulteriormente Washington e indebolire la posizione dell’Occidente, già provata da anni di tensioni, guerre per procura e sfiducia crescente nella leadership americana.

Di fronte a tutto ciò, sorprende, ma non troppo, il silenzio delle istituzioni europee. L’assenza di una voce autonoma e forte, capace di richiamare al diritto internazionale e al buon senso diplomatico, rivela una volta di più la fragilità strategica dell’Unione Europea.

In un momento in cui sarebbe necessario raffreddare gli animi e rafforzare i canali di comunicazione tra le potenze, l’amministrazione Trump sceglie la via muscolare. Una strada che, più che garantire la pace, rischia di alimentare l’instabilità.

Sarebbe utile che chi ha ancora responsabilità di governo e influenza nelle relazioni internazionali riflettesse con serietà su quanto accaduto. Non per difendere l’Iran o giustificare le sue ambizioni nucleari, ma per evitare che un’intera regione, e con essa il mondo, venga trascinata in un conflitto sempre più difficile da contenere.