
Con il nuovo ordine esecutivo firmato da Donald Trump, l’America torna a voltare le spalle al mondo. Dodici Paesi colpiti da un divieto totale di ingresso, sette da restrizioni parziali, e la chiusura simbolica, e profondamente politica, dei visti per gli studenti internazionali diretti ad Harvard. È una mossa che non parla solo di sicurezza o immigrazione, ma di un progetto più ampio: il ritorno dell’isolazionismo americano.
Trump sfrutta ancora una volta la leva della paura: un attacco isolato, per quanto grave, diventa il pretesto per un giro di vite che colpisce intere nazioni. Un lanciafiamme artigianale usato da un singolo individuo basta per marchiare milioni di persone come minacce potenziali. Ma l’ipocrisia è evidente: l’attentatore è egiziano, eppure l’Egitto resta fuori dalla lista. I legami personali di Trump con il presidente al-Sisi contano più della coerenza delle sue politiche.
Questo è il cuore del problema. Le scelte non sono guidate da un reale criterio di sicurezza, ma da una logica geopolitica disegnata su misura per i proclami elettorali. La selezione dei Paesi, la narrazione del “pericolo straniero”, la retorica dell’“America first” tradiscono un’idea del mondo chiusa, rigida, impaurita. Non c’è una vera strategia di cooperazione, non c’è dialogo: c’è il muro, fisico o burocratico che sia.
È un copione già visto. Nel 2017 fu il “Muslim ban”, accolto da proteste in tutto il mondo. Oggi, con il pretesto della sicurezza nazionale, Trump lo ripropone in versione ampliata, senza neppure attendere prove credibili dell’efficacia passata. Perché? Perché funziona, elettoralmente. Trasformare l’“altro” in un pericolo è da sempre uno strumento potente di mobilitazione identitaria. Ma le conseguenze sono profonde.
In primo luogo, si scava un solco sempre più ampio tra gli Stati Uniti e il Sud globale. Bloccare l’accesso a studenti, lavoratori e richiedenti asilo significa spezzare legami umani, culturali ed economici. Significa privarsi del contributo di chi vede nell’America un faro di opportunità. Harvard lo ha capito, denunciando l’ordine come una ritorsione illegittima e contraria allo spirito del Primo Emendamento. Ma il messaggio è chiaro: anche l’élite intellettuale è ora nel mirino.
In secondo luogo, questo approccio riduce la credibilità internazionale degli Stati Uniti. Come può una nazione pretendere leadership globale se tratta milioni di cittadini stranieri come presunti colpevoli? Come può guidare alleanze, mediazioni e risposte comuni alle sfide del XXI secolo, dalle pandemie al clima, se si chiude a riccio dietro ai suoi confini?
Infine, il rischio più grande è interno. Alimentare una narrazione costante di minaccia esterna rafforza la polarizzazione, radicalizza il dibattito, svilisce i valori fondanti della democrazia americana. Non c’è nulla di “forte” nel chiudersi: è il riflesso di una nazione che ha paura di confrontarsi con la complessità del mondo.
Trump lo sa. E lo usa. Ma la posta in gioco non è solo la campagna elettorale del 2024 o il destino di qualche decina di visti. È la visione stessa dell’America nel mondo: faro di libertà o fortezza assediata. Le scelte di oggi ci dicono che, se non contrastato, l’isolazionismo trumpiano è destinato a diventare la nuova norma. E con esso, l’America rischia di perdere ciò che la rendeva davvero grande: la capacità di accogliere, unire, guidare.