La vicenda che ha portato all’autosospensione di Alfonso Signorini da Mediaset non è solo l’ennesimo capitolo di una cronaca mediatica tossica. È, piuttosto, uno specchio fedele di un meccanismo politico-culturale ben noto in Italia, ribaltare le responsabilità, spostare il fuoco, delegittimare chi denuncia per evitare di discutere i fatti.
La strategia è antica. Di fronte ad accuse gravi, che riguardano il presunto abuso di potere nei confronti di aspiranti concorrenti del Grande Fratello, la reazione non è stata una verifica pubblica e trasparente dei comportamenti contestati, ma l’immediata costruzione di una cornice difensiva, “campagna calunniosa”, “aggressione virulenta”, “danni irreparabili”. Parole forti, che però non rispondono alla domanda centrale, quei comportamenti ci sono stati oppure no?
In questo scenario entra in scena Fabrizio Corona, personaggio che gode di scarsissima stima pubblica, anche a ragione. Il suo passato giudiziario e il suo stile comunicativo rendono facile, fin troppo facile, liquidarlo come inattendibile. Ed è proprio su questo che si gioca la partita, se il messaggero è screditato, il messaggio può essere ignorato senza affrontarlo.
Eppure, qui sta il punto politico. La credibilità personale di chi denuncia non può sostituire l’accertamento dei fatti. È un principio liberale elementare, anche una fonte scomoda può sollevare una questione vera. In questo caso, Corona non ha lanciato allusioni vaghe, ma ha affermato di possedere chat, documenti, testimonianze. Se tali materiali sono falsi, lo si dimostri. Se sono veri, il problema non è chi li ha diffusi, ma ciò che rivelano.
La reazione del sistema televisivo, dalla produzione Endemol Shine Italy fino all’azienda editrice, appare invece orientata alla gestione del danno reputazionale, non alla tutela dei più deboli. Si invoca il codice etico, ma lo si fa come uno scudo, non come uno strumento di verità. Si parla di “verifiche”, ma senza tempi, senza trasparenza, senza assunzione di responsabilità.
C’è poi un elemento ulteriore, che l’ex paparazzo enfatizza con toni volutamente provocatori, l’esistenza di rapporti di forza interni al gruppo televisivo, fatti di silenzi, convenienze e timori che coinvolgerebbero i livelli più alti della catena decisionale. Anche in questo caso, si può legittimamente dubitare della narrazione. Ma non la si può liquidare o censurare senza prima sottoporla a una verifica rigorosa dei fatti.
Il punto, dunque, non è difendere Corona né assolverlo dal suo passato. Il punto è riconoscere che, per una volta, ha acceso un riflettore su un malcostume che molti conoscevano e pochi osavano nominare. Un sistema in cui l’accesso alla visibilità può trasformarsi in merce di scambio, e in cui chi controlla il potere mediatico raramente risponde delle proprie condotte.
In una democrazia matura, non si spegne l’allarme per non disturbare il palazzo. Si entra in casa, si controlla, e si accetta la verità, qualunque essa sia. Anche, e soprattutto, quando è scomoda.
