Gli arresti di questi giorni non sono solo una notizia di cronaca giudiziaria. Sono una crepa, improvvisa ma profonda, nel racconto rassicurante secondo cui tutto ciò che passa sotto l’etichetta di “aiuto umanitario” sarebbe, per definizione, innocente. Secondo la magistratura italiana, nove persone sono state arrestate con l’accusa di aver finanziato Hamas attraverso una rete di associazioni presentate come solidali con Gaza, convogliando oltre sette milioni di euro verso entità collegate all’organizzazione terroristica, con un sequestro complessivo superiore agli otto milionitra contanti e beni .
È doveroso ricordarlo subito: un’inchiesta non è una sentenza. Ma è altrettanto doveroso non voltarsi dall’altra parte quando i fatti indicano l’esistenza di una zona grigia strutturale, in cui la solidarietà può essere usata come copertura per il finanziamento del terrorismo. Non si tratta di criminalizzare chi aiuta i civili palestinesi, bensì di prendere atto che Hamas è finanziata, e che in alcuni casi questo finanziamento passa proprio da quei canali che dovrebbero alleviare la sofferenza, non alimentare la guerra .
Secondo gli investigatori, i fondi sarebbero transitati attraverso associazioni e intermediari operanti anche in Europa, sfruttando la difficoltà di controllo dell’“ultimo miglio” in territori dominati da gruppi armati. Una vulnerabilità nota da anni agli apparati di sicurezza occidentali, ma troppo spesso rimossa dal dibattito pubblico perché scomoda.
Ed è qui che la questione smette di essere solo giudiziaria e diventa politica. La politica non poteva non sapere chi fossero quei personaggi, quali ambienti frequentassero, quali parole d’ordine veicolassero, perché quelle stesse figure, oggi al centro di indagini per finanziamento al terrorismo, da anni occupano spazi pubblici, universitari e culturali, parlano a studenti e giovani attivisti, costruiscono consenso e linguaggio.
Non è un caso isolato, ma parte di un fenomeno più ampio: un processo di islamizzazione politica che passa anche dall’avvelenamento dei luoghi di cultura, a partire dalle università, per minarne le fondamenta dall’interno. Lo denunciano analisti e osservatori da tempo, ma il tema viene spesso liquidato come allarmismo. Eppure, come è stato detto con lucidità, “vi è un’ignoranza di fondo spaventosa”.
Questa ignoranza si manifesta nei cortei e nelle aule universitarie, quando si grida “dal fiume al mare” senza sapere – o fingendo di non sapere – che quella formula non è uno slogan neutro, ma la teorizzazione dell’annientamento dello Stato di Israele. Non è attivismo ingenuo. È un attacco ideologico dell’islam politico all’Occidente, che usa il linguaggio dei diritti per svuotarli dall’interno.
Ed è qui che prende forma una narrazione tossica, studiata per confondere le acque, che tende ad amalgamare Gaza e Hamas, come se fossero un’unica entità. Ma non lo sono e fingere che lo siano significa alterare deliberatamente la realtà. Confondere Gaza con Hamas è un errore grave. Confondere la causa palestinese con la legittimazione di Hamas è qualcosa di ancora peggiore: è una falsificazione morale. La Striscia di Gaza vive da anni una crisi umanitaria drammatica, riconosciuta dalle Nazioni Unite e dall’intera comunità internazionale. Sostenere i civili palestinesi non è solo legittimo: è un dovere.
La stessa ONU ha più volte ribadito la necessità di garantire aiuti umanitari alla popolazione civile, sottolineando come questi debbano essere rigorosamente separati da qualsiasi utilizzo militare o politico. È una distinzione fondamentale, troppo spesso cancellata nel dibattito pubblico, perché è proprio in quella cancellazione che si annida l’inganno: trasformare la solidarietà in propaganda e la sofferenza in strumento ideologico.
Ma proprio per questo, sostenere o giustificare Hamas è l’esatto opposto della solidarietà verso i palestinesi. Hamas è un’organizzazione terroristica, inserita nella lista nera dell’Unione Europea, responsabile di attentati, massacri e della sistematica militarizzazione della società civile di Gaza. Difenderla o minimizzarne il ruolo significa rendere i civili ostaggi permanenti di un progetto ideologico e militare.
Come ha ricordato la Commissione europea, al netto delle accuse israeliane, non vi sono prove definitive che Hamas controlli ogni singolo flusso di aiuti; ma ciò non equivale a negare il rischio di deviazioni, tassazioni forzate o appropriazioni indebite, soprattutto in contesti in cui un gruppo armato esercita il potere di fatto . Ed è proprio questa ambiguità a costituire la “zona grigia” che oggi l’inchiesta italiana riporta brutalmente alla luce.
In questa storia ci sono due vittime, ed entrambe pagano il prezzo dell’ipocrisia. I palestinesi, perché ogni euro dirottato verso il terrorismo è un pasto, una medicina, una possibilità di futuro che non arriva. Gli israeliani, perché ogni rete di finanziamento non smantellata contribuisce a rafforzare chi predica e pratica la loro distruzione.
Sostenere la causa palestinese è un imperativo morale riconosciuto dal diritto internazionale, scritto nei principi che tutelano i civili nelle guerre e nei conflitti asimmetrici. Legittimare Hamas, invece, significa negare proprio quei diritti, perché la violenza non emancipa, ma imprigiona, consegnando i civili a un progetto che usa la forza come linguaggio politico. Sostenere Hamas è complicità con il terrorismo. Le due cose non solo non coincidono: sono l’una la negazione dell’altra. Fingere che questa distinzione non esista – per calcolo politico, paura o ignoranza – significa tradire entrambe le popolazioni e rinunciare a qualunque idea di pace fondata sulla verità.
Gli arresti di questi giorni, comunque vada l’inchiesta, ci obbligano a guardare questa realtà senza slogan e senza alibi. Perché quando l’aiuto diventa un’arma ideologica, la prima a morire è la solidarietà, la seconda è la verità.
