Il nuovo scontro interno alla maggioranza sul decreto per la proroga degli aiuti militari all’Ucraina non è un incidente isolato, né un mero aggiustamento tattico. È il riflesso di una frattura politica ormai strutturale, da una parte Giorgia Meloni e Antonio Tajani, custodi della linea euroatlantica, dall’altra Matteo Salvini, leader di un partito che non ha mai sciolto del tutto la sua ambiguità verso Mosca e che, ciclicamente, tenta di ricollocarsi come interprete di un “pacifismo a targhe alterne”.
La premier, durante la sua missione in Bahrein, ha ribadito: l’Italia continuerà a sostenere Kiev finché la guerra non sarà finita. Non per spirito bellicista, come afferma, ma per garantire a un Paese aggredito il diritto alla difesa. Una posizione lineare, anche se non priva di costi politici interni. La scadenza del 31 dicembre impone un nuovo decreto, e Meloni intende approvarlo a prescindere dagli umori della Lega. Il messaggio è chiaro: la politica estera non è un terreno negoziabile.
È qui che entra in scena Salvini, con il consueto passo di danza tra ciò che dice e ciò che poi vota. Il leader leghista, infatti, è tornato a evocare la necessità della pace, a distinguere tra “difesa dell’Ucraina” e “alimentare la guerra”, a mettere in guardia dalle armi a lungo raggio. A parole, la Lega è contraria a un sostegno militare che prolunghi il conflitto. Nella pratica, però, il partito ha votato puntualmente ogni decreto sugli aiuti, anche dopo aver annunciato che non l’avrebbe fatto più.
La distanza fra dichiarazioni e atti è talmente ricorrente che sembra ormai parte integrante della strategia salviniana, posizionarsi retoricamente come voce alternativa, senza però assumersi il rischio reale di uno strappo. Un equilibrio precario, che crea tensione senza cambiare nulla.
Il punto politico, però, è un altro, Salvini non sta parlando solo all’elettorato italiano. Parla a quei segmenti dell’opinione pubblica europea che guardano con sospetto alla linea dura contro la Russia; parla agli imprenditori del Nord che temono i costi del nuovo bando Ue sul gas; parla, soprattutto, a un suo immaginario geopolitico che non ha mai reciso del tutto il cordone ombelicale con Mosca. Le sue parole sui “voli da Roma a Mosca”, sul “riaprire i commerci”, sul desiderio di “non avere altre guerre”, non sono incidenti linguistici, sono segnali politici.
Meloni, dal canto suo, è costretta a misurare le parole e a spegnere incendi. Difende la linea Nato, ma si premura di smussare le affermazioni dell’ammiraglio Cavo Dragone sugli scenari più aggressivi. Non vuole dare spazio all’accusa, cara alla Lega, che l’Occidente stia “provocando” Mosca. È un gioco di equilibrio sottile, ma necessario per mantenere una maggioranza sempre più irrequieta.
Forza Italia, invece, si allinea senza esitazioni. Tajani richiama prudenza, ma conferma che il decreto si farà. È un posizionamento coerente con la sua tradizione, atlantismo vocale, moderazione, zero ambiguità.
Il risultato complessivo è una fotografia nitida, la maggioranza è divisa su un tema cardine della politica internazionale, e la spaccatura è destinata a riproporsi ogni volta che la guerra in Ucraina riemerge nell’agenda politica. Meloni vuole stabilità e continuità; Salvini vuole distinguersi, senza pagare il prezzo del dissenso pieno.
La verità è che il vicepremier ha bisogno di dire “no”, ma non può permettersi di votare “no”. E finché questo doppio binario resterà in piedi, la tensione nel centrodestra non potrà che crescere. Meloni lo sa. Salvini lo sa. Gli italiani lo stanno capendo sempre più chiaramente.
