C’è un governo che festeggia sui palchi, e un’Italia che deve leggere i numeri. La prima è quella della maggioranza, impegnata in una campagna elettorale permanente fatta di slogan, promesse e trionfalismi sulla “forza” del Paese. La seconda è quella restituita dalla Commissione europea, fredda, impietosa, refrattaria alla propaganda. Ed è questa seconda Italia, quella reale, che merita di essere guardata in faccia.
Le previsioni d’autunno di Bruxelles tracciano un quadro che più chiaro non potrebbe essere, l’economia italiana cresce a metà della media dell’Eurozona. Non un punto percentuale in meno, la metà. Tra il 2025 e il 2027 saremo il fanalino di coda del continente, l’ultima ruota del carro europeo. E mentre i nostri partner avanzano, alcuni arrancando, altri accelerando, noi restiamo inchiodati a una stagnazione che ormai ha il sapore amaro della normalità.
Paradossalmente, i conti pubblici non sono il problema principale. Il deficit scende, sfiora, senza arrotondamenti, il 2,98% del Pil, abbastanza per immaginare un’uscita dalla procedura per disavanzo nel 2026. Bene. Ma proprio qui si apre lo squilibrio, perché se i saldi migliorano, l’economia reale resta ferma. Crescere dello 0,4% nel 2025, la metà delle stime medie dell’Eurozona, significa non crescere affatto. Significa rinunciare ad aumenti di produttività, salari, investimenti, opportunità. Significa lasciare che il resto del continente si allontani un po’ di più, anno dopo anno.
Non è consolante osservare chi ci supera. Francia e Germania non vivono certo un loro Rinascimento economico, eppure riescono a staccarci. Spagna, Portogallo e Grecia, un tempo additate dai nostri sovranisti come esempi di fragilità, crescono oggi più del doppio dell’Italia. La Polonia, la Svezia, la Repubblica Ceca trainano la media europea. Noi la rallentiamo.
È qui che emerge il dramma strutturale del Paese, quando Bruxelles parla di “politiche invarianti”, traduce in linguaggio tecnico ciò che gli italiani vivono sulla loro pelle. Senza riforme vere, senza una politica industriale, senza una strategia energetica, senza un piano per il lavoro e per la natalità che non sia solo propaganda, la crescita non arriva. O peggio, arriva altrove.
E mentre le famiglie affrontano un’inflazione che ha eroso salari già fermi da vent’anni, mentre le imprese soffrono una domanda interna inesistente, mentre il Mezzogiorno continua a perdere capitale umano come una ferita aperta che non si rimargina, il governo sceglie di apparire anziché affrontare. Balla sui palchi, mentre il Paese arranca. Rivendica miracoli, mentre i numeri raccontano un’altra storia.
Il rischio più grande non è la stagnazione in sé. L’Italia purtroppo la conosce bene. Il rischio è l’assuefazione, abituarsi all’idea che crescere la metà degli altri sia “normale”. Che essere ultimi non sia uno scandalo. Che il declino sia solo un fenomeno statistico, e non una responsabilità politica.
Questi dati non sono agghiaccianti solo per la loro entità, ma per ciò che implicano, senza un cambio di rotta, saremo sempre più marginali in Europa. E non per colpa di Bruxelles, dei mercati o di qualche complotto esterno. Per colpa nostra. Per colpa di chi preferisce i riflettori alla programmazione, il consenso immediato alla visione di lungo periodo.
L’Italia può fare molto meglio. Ma non può farlo con un governo che nega la realtà mentre la realtà lo travolge.
