Donald Trump, l’uomo che si presenta come difensore del “vero americano”, continua a essere trattato nel mondo come ciò che, in fondo, sembra desiderare essere: un re. In Corea del Sud, nella storica Gyeongju, gli hanno appena consegnato una replica di una corona d’oro dei sovrani di Silla, una dinastia che regnò per quasi un millennio. È un gesto di cortesia diplomatica, certo. Ma nel linguaggio dei simboli, è anche un’ammissione globale: il pianeta intero ha ormai compreso che il magnate di New York non sogna tanto la rielezione quanto l’incoronazione.
L’ironia di una democrazia in parata
C’è una sottile ironia nel vedere il presidente di una repubblica nata da una rivoluzione anti-monarchica ricevere sorridente un emblema di potere assoluto, mentre a casa sua migliaia di cittadini scendono in piazza con cartelli che gridano “No King in America”. È come se il mondo, smettendo di prenderlo sul serio come statista, avesse deciso di prenderlo alla lettera come personaggio.
L’estetica del potere assoluto
L’episodio di Gyeongju è solo l’ultimo capitolo di una saga estetico-politica che sta assumendo toni barocchi. Dopo la sala da ballo della Casa Bianca in stile Luigi XIV e il monumentale Arc de Trump (una copia privata e dorata dell’arco di trionfo parigino, commissionata per le parate della vanità), ora arriva la corona, simbolo perfetto di una visione del potere che si crede predestinata, non eletta.
Un’aura divina per un leader terreno
L’ufficio presidenziale di Seoul ha spiegato che il dono rappresenta la “connessione divina tra la leadership celeste e quella terrena”. Forse è stato detto con innocente rispetto per la tradizione coreana. Ma agli occhi dell’osservatore occidentale il messaggio è fin troppo chiaro, il leader americano viene ormai percepito come una figura messianica, un uomo che pretende fedeltà più che consenso.
Dal voto alla venerazione
Non è un caso che la retorica trumpiana abbia progressivamente abbandonato il linguaggio della democrazia per abbracciare quello della grazia e della missione. I suoi sostenitori non lo votano più come presidente, lo venerano come incarnazione del destino nazionale. E come in ogni monarchia populista, il popolo stesso è chiamato a essere il cortigiano devoto, non il cittadino sovrano.
La satira come incoronazione
Il paradosso, tuttavia, è che questa “monarchia del popolo” funziona. Ogni scandalo, ogni derisione, ogni caricatura, persino le immagini generate dall’intelligenza artificiale che lo mostrano come un sovrano guerresco, non fanno che alimentare il mito. Trump indossa la satira come un mantello imperiale. Se lo si prende in giro con una corona, finirà per farsela davvero mettere sul capo, magari sorridendo davanti alle telecamere.
La diplomazia dell’oro
Nel frattempo, i leader stranieri, pragmatici fino al cinismo, sembrano aver capito la formula, per conquistare la simpatia del nuovo “re” basta offrirgli oro. Palline da golf placcate a Tokyo, una medaglia di Mugunghwa a Seoul, dessert dorati a cena di Stato. È la diplomazia dei metalli preziosi: non si negozia, si adorna.
Il rischio della corte americana
Eppure, dietro il luccichio dell’oro, rimane una domanda di sostanza: cosa significa, per la democrazia americana, che il suo presidente venga percepito, dentro e fuori i confini, come un monarca in attesa di consacrazione? Forse che la repubblica più antica del mondo moderno sta cedendo, lentamente, al fascino della teatralità assoluta del potere. Forse che la politica contemporanea non ha più spazio per il cittadino, ma solo per il suddito incantato.
Tutto ciò che luccica
A Gyeongju, i sovrani di Silla credevano che la corona li collegasse al cielo. Trump, ricevendone la replica, sembra aver trovato la sua conferma terrena. Non è più solo il comandante in capo, è l’icona dorata di una democrazia che rischia di trasformarsi in una corte.
E chissà, la prossima volta, invece di una replica, qualcuno potrebbe offrirgli la versione autentica.
Perché nel regno del populismo, tutto ciò che luccica è, inevitabilmente, oro.
