Trump, la pace senza i Tomahawk

Niente missili per Kiev, solo negoziati tra uomini di potere. Il nuovo equilibrio mondiale passa dalla trattativa tra Trump e Putin

Donald Trump incontra Vladimir Putin, il 15 agosto 2025, alla Joint Base Elmendorf-Richardson, in Alaska

Donald Trump torna a parlare di pace, e come sempre lo fa a modo suo, con un misto di calcolo politico, intuizione istintiva e autocelebrazione. La sua esitazione nel fornire all’Ucraina i missili Tomahawk, a lungo raggio e simbolo della proiezione militare americana, non è solo una scelta tattica. È un segnale strategico, e profondamente politico, che delinea la visione trumpiana del potere e della pace, una visione che diffida dei compromessi “istituzionali” dell’Occidente e preferisce trattare la geopolitica come una contrattazione diretta tra leader forti.

Il rifiuto (o rinvio) della vendita dei Tomahawk non nasce da un improvviso pacifismo del presidente americano. Al contrario, è un messaggio a Mosca e, indirettamente, a Kiev: Trump vuole essere l’unico arbitro credibile di un nuovo ordine negoziale. In altre parole, sottrae la leva militare, i missili, per sostituirla con la leva personale, il suo ruolo di mediatore. Non a caso, il vertice annunciato con Vladimir Putin in Ungheria non include formalmente Zelenskyy, che resterà “in contatto”, ma non al tavolo. È il ritorno del leader-diplomatico al posto delle istituzioni multilaterali, del negoziatore carismatico al posto della diplomazia di sistema.

Trump legge il conflitto ucraino come un affare tra uomini di potere, non tra nazioni. Putin e Zelenskyy, dice, “vogliono la pace ma non si sopportano”. Da qui la convinzione, quasi psicologica, che la guerra si possa chiudere con un accordo personale, purché qualcuno “apparecchi bene la tavola”. È una narrazione semplice, forse ingenua, ma politicamente efficace, trasforma una tragedia geopolitica in un dramma umano che solo un leader “fuori dagli schemi” può risolvere.

Eppure dietro la semplificazione retorica si nasconde una logica fredda. Trump non vuole legare gli Stati Uniti a un conflitto che non controlla. Sa che la guerra in Ucraina è diventata un pantano finanziario e strategico per Washington, e che la pazienza del Congresso e dell’opinione pubblica è quasi esaurita. Rifornire Kiev con missili a lungo raggio significherebbe vincolare la Casa Bianca a un’escalation che potrebbe facilmente travolgere la promessa trumpiana di “America first”.

La sua posizione, dunque, non è quella di un isolazionista puro, ma di un negoziatore che vuole massimizzare il capitale politico americano riducendo l’esposizione militare. In cambio dei Tomahawk, Trump offre “l’accordo”: un tavolo a Budapest, una pace firmata col sigillo personale del presidente degli Stati Uniti, una vittoria diplomatica da esibire in campagna elettorale e magari in futuro il Nobel per la Pace.

Il problema è che questa impostazione parte da un presupposto discutibile, che Putin voglia davvero la pace. Il Cremlino, per bocca di Peskov, parla di “momento drammatico”, ma non dà alcun segno di cedimento. La Russia interpreta l’esitazione americana non come un’apertura negoziale, ma come una finestra di opportunità per consolidare i propri guadagni territoriali.

Nel frattempo, Zelenskyy è stretto in una morsa, deve mantenere viva l’alleanza occidentale senza apparire subalterno a un presidente americano che flirta apertamente con il suo aggressore. I droni ucraini, proposti come merce di scambio in un “Drone deal” con Washington, sono un tentativo disperato di restare al tavolo. Ma anche questo gesto, nella visione trumpiana, serve a riequilibrare il rapporto di forza, non a rafforzare Kiev.

Alla fine, il messaggio di Trump è chiaro: l’America non regalerà più missili per guerre altrui. Vorrà invece venderne di meno e comprare più pace, purché il contratto lo firmi lui.

Budapest potrebbe diventare il teatro simbolico di questa diplomazia personalista, non il luogo in cui finisce la guerra, ma quello in cui Trump prova a riscrivere il ruolo dell’America nel mondo.
E se la pace non arriverà, almeno potrà dire che non è colpa dei Tomahawk.