
Il vertice di Sharm El-Sheikh, con il suo sfavillio di flash e dichiarazioni solenni, rischia di essere ricordato come l’ennesimo esercizio di diplomazia performativa: un accordo che nasce con una mano legata dietro la schiena. Lo scambio di ostaggi tra Israele e Hamas, 20 israeliani vivi e 28 corpi in cambio di 2.000 detenuti palestinesi, è stato presentato come la prova che la pace è possibile. In realtà, è solo la parte più semplice di un piano di pace che rischia di naufragare prima ancora di lasciare il porto.
Il piano di Trump: forza senza visione
Il cosiddetto “piano in 20 punti” del presidente Donald Trump affronta con energia muscolare le conseguenze del conflitto, ma evita con cura chirurgica di toccarne le cause. La questione dell’occupazione, la frammentazione territoriale, l’assenza di sovranità palestinese: tutto ciò resta fuori quadro. Senza un riconoscimento politico concreto della Palestina, non vi è pace ma soltanto sospensione del conflitto.
Gaza: il vuoto del potere e il dilemma del futuro
Gaza, ridotta a un cumulo di macerie, resta al centro di un dilemma insolubile: chi la governerà? L’accordo non lo dice. Hamas è troppo screditata per essere mantenuta, l’Autorità Palestinese è troppo debole per essere imposta, e l’ipotesi di una forza internazionale araba o musulmana resta un miraggio senza il previo disarmo di Hamas, condizione che nessuno, a oggi, sembra in grado di far rispettare.
Trump e Netanyahu: un’alleanza di convenienza
In questo vuoto politico si inserisce la dinamica di potere tra Trump e Netanyahu, un rapporto di reciproca utilità che oscilla tra lealtà tattica e calcolo personale. Netanyahu, stretto tra i suoi guai giudiziari e il logoramento politico interno, non ha alcun incentivo reale a consolidare la pace. Un conflitto latente gli offre copertura e distrazione, mentre una pace stabile riaprirebbe inevitabilmente il dibattito sulla sua responsabilità per le falle del 7 ottobre e per la deriva autoritaria del suo governo.
L’egocentrismo americano e la marginalità palestinese
Trump, dal canto suo, sembra più interessato al palcoscenico che al copione. Il mancato Premio Nobel per la Pace pesa sul suo ego più del futuro di Gaza. E senza un riconoscimento personale, difficilmente investirà energie politiche per garantire l’attuazione delle clausole più complesse del suo piano. Il vertice di Sharm El-Sheikh, allora, appare come un’operazione d’immagine: utile a consolidare la narrativa del “deal maker” americano, ma priva della sostanza diplomatica necessaria a costruire un ordine duraturo.
I palestinesi, ancora una volta, sono stati esclusi dal tavolo dove si decide del loro destino. Non hanno voce, né potere negoziale, né garanzie. È il ritorno di una logica coloniale mascherata da processo di pace: si parla di loro, mai con loro. Eppure, senza una rappresentanza autentica del popolo palestinese, ogni piano di pace è un castello di sabbia.
Una tregua fragile e una pace lontana
Ciò che si delinea dopo Sharm El-Sheikh non è una pace, ma una tregua fragile sostenuta da interessi divergenti e da un consenso apparente. Una tregua utile a Trump per dichiarare “missione compiuta”, utile a Netanyahu per guadagnare tempo, ma irrilevante per milioni di palestinesi che vivono senza Stato, senza sicurezza e senza speranza.
La verità è che la pace non è mai stata in cima all’agenda di chi oggi se ne proclama architetto. Finché il diritto all’autodeterminazione palestinese resterà subordinato alle convenienze di Israele e ai calcoli politici americani, nessun vertice potrà trasformare la tregua in un trattato, né la tregua in giustizia.
Oltre Sharm El-Sheikh, restano solo le macerie di Gaza e l’eco delle promesse infrante. La vera pace, quella che riconosce dignità e Stato al popolo palestinese, è ancora un miraggio nel deserto.