François Bayrou è il quarto premier caduto sotto la presidenza di Emmanuel Macron. La sfiducia votata ieri all’Assemblea nazionale, con 364 no contro 194 sì, ha sancito non soltanto la fine di un governo durato appena nove mesi, ma soprattutto l’incapacità strutturale della Quinta Repubblica, nella sua configurazione attuale, di garantire stabilità politica. È un colpo diretto all’Eliseo e alla figura stessa del presidente.
Macron aveva scelto Bayrou come uomo del risanamento, il leader capace di dire la verità scomoda: la Francia non ha un bilancio in pareggio da oltre cinquant’anni, il debito è ormai insostenibile e i mercati non perdoneranno a lungo il rinvio delle riforme. Eppure, proprio su questo terreno Bayrou è stato rovesciato, respinto da un’alleanza trasversale che ha unito estrema destra e sinistra radicale, più interessate a cavalcare il malcontento sociale che a farsi carico della realtà economica.
La crisi francese, tuttavia, va oltre la caduta di un governo. È l’intero sistema politico a mostrarsi inadeguato. L’Assemblea nata dalle elezioni anticipate dell’estate 2024 è ingovernabile: nessuna maggioranza possibile, nessun compromesso praticabile. Chiunque Macron indichi come nuovo primo ministro, si fa il nome del ministro della Difesa, Sébastien Lecornu, rischia di cadere alla prima curva, quando in ottobre arriverà il momento della legge di bilancio.
Marine Le Pen invoca lo scioglimento immediato del Parlamento, convinta che solo nuove elezioni possano consegnarle la maggioranza assoluta e l’ingresso a Matignon. Jean-Luc Mélenchon rincara la dose, chiedendo addirittura le dimissioni di Macron e una presidenziale anticipata. La politica francese si polarizza così sugli estremi, lasciando un centro macronista logorato, incapace di esercitare la funzione di cerniera.
Il presidente, dal canto suo, non sembra disposto a farsi da parte. Macron resiste, cercando un nuovo premier che possa reggere almeno fino al 2027, termine naturale del mandato. Ma si tratta di una missione quasi impossibile: senza maggioranza, ogni governo diventa ostaggio delle opposizioni e condannato a vita breve. La paralisi istituzionale si somma a una crisi sociale che promette di esplodere: domani il movimento “Blocchiamo tutto” annuncia manifestazioni e scioperi, con il rischio concreto che il Paese si fermi.
L’Europa osserva con crescente inquietudine. Una Francia instabile mina l’intero edificio comunitario, già scosso dal rafforzamento delle destre radicali in Germania e dalla fragilità della Spagna di Sánchez.
Macron ha provato a rispondere alla crisi con la tecnica del bilanciere, scegliendo premier centristi capaci di parlare ora a destra, ora a sinistra. Ma la serie di governi caduti dimostra che la sua presidenza è rimasta prigioniera di un Parlamento frammentato e ribelle. L’Eliseo non riesce più a imporre la sua agenda. Ogni nuova nomina rischia di trasformarsi in una beffa, un’illusione di continuità destinata a dissolversi al prossimo voto.
Forse l’unica via d’uscita realistica è proprio quella temuta da Macron: il ritorno alle urne. Elezioni nazionali che, pur rischiose, consentirebbero di ridisegnare l’arco politico francese e misurare la forza reale di Le Pen, Mélenchon e dello stesso campo presidenziale. Continuare a galleggiare tra governi precari e fiducie impossibili non è più sostenibile.
La Francia ha bisogno di un nuovo patto politico. Se non sarà Macron a promuoverlo, lo farà inevitabilmente la piazza.
