
Le parole pronunciate dal presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, in un’intervista a La Stampa, pesano come macigni. “Se al governo ci fossero Schlein, Conte, Fratoianni e Bonelli, a noi sparerebbero per strada. Per fortuna ci sono Meloni e la destra a difenderci”. Un’affermazione che non è solo ingenerosa, non è solo politicamente sbagliata: è pericolosa.
Un cortocircuito inaccettabile
Pericolosa perché introduce nella vita pubblica italiana un cortocircuito inaccettabile: accusare la sinistra democratica di essere potenziale complice di un nuovo antisemitismo, e contemporaneamente innalzare a protettrice del popolo ebraico quella destra italiana che mai si è veramente emancipata dalla propria eredità storica. La stessa destra che custodisce busti di Mussolini, evita di celebrare il 25 aprile e non riesce, ancora oggi, a pronunciare senza esitazioni la parola “antifascismo”.
Chi conosce la storia italiana non può restare indifferente. È stata la destra fascista, nel 1938, a promulgare le leggi razziali. Sono stati gerarchi italiani, spesso con zelo superiore ai loro padroni tedeschi, a caricare su treni piombati migliaia di ebrei italiani e consegnarli ai campi di sterminio nazisti.
Il doppio paradosso
Il paradosso è dunque doppio. Non solo si accusa la sinistra di essere una minaccia, ma lo si fa lodando chi porta sulle spalle, volente o nolente, la responsabilità storica dell’antisemitismo di Stato in Italia. Si tratta di un ribaltamento che rasenta la riscrittura della storia.
Questa frattura interna al mondo ebraico italiano non nasce dal nulla. Riflette la profonda divisione sulla questione israelo-palestinese, e in particolare sulla guerra a Gaza. Ci sono ebrei che guardano a destra perché vedono in essa un sostegno incondizionato a Israele, senza se e senza ma. E ci sono ebrei che invece mantengono un approccio critico, legati alla tradizione democratica e progressista, capaci di distinguere tra la legittima difesa dello Stato ebraico e la condanna di politiche che rischiano di perpetuare violenza e odio.
Ma il dissenso politico non può trasformarsi in autoannullamento storico. Non può portare a lodare gli eredi di chi un tempo ti voleva annientare, e al contempo criminalizzare chi, pur nella critica, resta dentro il solco dell’antifascismo e della democrazia. È come se la paura, paura reale, perché l’antisemitismo in Europa e in Italia cresce, spingesse alcuni a dimenticare ciò che non può essere dimenticato.
Il dovere della misura
Chi guida una comunità ha il dovere della misura, della memoria e della responsabilità. A maggior ragione in un tempo fragile come questo. Perché non c’è nulla di più divisivo e autodistruttivo che trasformare la comunità ebraica italiana in un campo di battaglia politica, con ebrei di destra ed ebrei di sinistra pronti ad accusarsi reciprocamente di tradimento.
E c’è un rischio ulteriore: che simili dichiarazioni finiscano per banalizzare davvero l’antisemitismo, trasformandolo in un’arma di polemica interna, invece di riconoscerlo là dove ancora agisce, spesso alimentato proprio in ambienti della destra radicale europea che oggi si vorrebbero descrivere come alleati naturali.
Non è questione di opinioni politiche: è questione di verità storica. Non si può rovesciare la memoria del 1938 per ragioni di tattica o convenienza.
La comunità ebraica italiana non merita questa lacerazione. L’Italia democratica non può permetterselo.