
Ieri, 15 agosto 2025, ad Anchorage, in Alaska, Donald Trump e Vladimir Putin si sono ritrovati faccia a faccia in un summit atteso da settimane. Tre ore di colloquio, sei uomini al tavolo, la promessa di parlare di Ucraina e di “riallacciare i rapporti”. La scena, potente, era tutta lì e la foto-ricordo c’è stata: la democrazia americana a braccetto col potere autoritario russo, sorrisi da manuale e stretta di mano plastificata. Sembrava grande politica, era solo coreografia.
Sergej Lavrov che sbarca in Alaska con la felpa CCCP è stata l’immagine che ha rubato la scena al summit tra Donald Trump e Vladimir Putin. Non un dettaglio folcloristico, ma un simbolo che ha alimentato interpretazioni di ogni tipo: per alcuni una provocazione nostalgica, per altri un richiamo nostalgico all’URSS capace di scatenare più dibattiti della sostanza stessa dell’incontro.
E la sostanza, in effetti, è rimasta evanescente. Dopo circa tre ore di confronto alla base militare JBER di Anchorage – “tre a tre nella forma, faccia a faccia nell’informale”, come ha scritto The Washington Post – non è emerso alcun accordo concreto. Reuters ha sintetizzato così: “nessun cessate il fuoco, solo progressi vaghi”, sottolineando come la conferenza finale si sia limitata a una breve apparizione senza domande, un rituale di sorrisi stiracchiati e frasi di circostanza.
Trump, dal canto suo, ha cercato di rivestire l’incontro di una parvenza di continuità diplomatica, affermando che avrebbe “consultato Zelenskij e i leader NATO” prima di muovere qualsiasi passo successivo. Reuters ha confermato che al rientro era prevista una lunga telefonata con il presidente ucraino. Putin invece ha parlato di un’“understanding”, un’intesa generica che secondo i presenti suonava più come un invito a Kiev e all’Europa a non “ostacolare” presunti progressi che a una reale apertura verso la pace.
Ma il nodo cruciale rimane: l’Ucraina non era al tavolo. AP News ha evidenziato come Trump abbia ribadito di non voler negoziare al posto di Kiev, lasciando così il dialogo in sospeso, con un possibile seguito con Zelenskij, mai fissato ufficialmente. Nel frattempo, sul terreno, nulla è cambiato. Al Jazeera ha documentato che durante e dopo il summit gli attacchi russi in Ucraina sono proseguiti senza alcun segnale di de-escalation.
Così, mentre la diplomazia produceva silenzi, l’immagine prendeva il sopravvento. Reuters ha parlato di una fotografia destinata a segnare questa fase storica: il leader del Cremlino accanto al presidente americano, stretta di mano e passo coordinato, una scena che normalizza l’anormale e consegna più suggestione che politica.
È qui che la felpa CCCP di Lavrov assume tutto il suo peso. Più che una provocazione, sembra un dono avvelenato per chi si ferma all’ovvio, per chi legge solo i loghi e non i silenzi. È facile gridare al ritorno dell’URSS vedendo un simbolo stampato sul petto; molto più difficile è cogliere nelle sue analisi sulle prime dichiarazioni di Putin, che la guerra era già annunciata da tempo, nelle mezze frasi e nelle dichiarazioni dirette che nessuno voleva ascoltare.
Alla fine, Lavrov un favore lo ha fatto: ha dato qualcosa di semplice da raccontare, un meme ambulante, una provocazione da prima pagina che non richiede troppi approfondimenti. Hindustan Times e Sky News hanno riempito titoli e commenti con il revival sovietico, mentre sul tavolo della politica internazionale restava il vuoto.
Così, il summit Alaska–Mosca verrà ricordato non per le decisioni – perché non ce ne sono state – ma per il cotone. Non per la pace, ma per il merchandising. Una diplomazia ridotta a passerella simbolica: oggi CCCP, domani forse una felpa con Che Guevara comprata in un bazar, dopodomani un kimono con la faccia di Kim Jong-un stampata all-over. E se questa è la politica estera del terzo millennio, c’è da aspettarsi che alla prossima occasione Lavrov arrivi in pigiama di flanella con Maša e Orso. E, inutile dirlo, qualcuno troverà anche in quello “un segnale”.
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