
Il 6 agosto 2025, nel penitenziario di Messina Gazzi, Stefano Argentino, 27 anni, è stato trovato senza vita. Il giovane, reo confesso era detenuto con l’accusa di aver ucciso brutalmente la collega universitaria Sara Campanella il 31 marzo scorso. L’uomo si è impiccato con un lenzuolo legato alle grate della finestra della sua cella. L’omicidio, avvenuto in pieno centro città davanti a testimoni, era stato preceduto da mesi di persecuzioni e minacce: la vittima, 22 anni, aveva più volte denunciato di essere seguita dal suo aggressore, arrivando persino a scriverlo alle amiche poche ore prima di morire.
Sette persone sotto inchiesta per il suicidio di Stefano Argentino
La Procura di Messina, guidata dal sostituto procuratore Annamaria Arena, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. In vista dell’autopsia, che sarà affidata il 12 agosto alla dottoressa Daniela Sapienza, hanno notificato sette avvisi di garanzia. Gli indagati sono la direttrice e la vice direttrice del carcere, un funzionario dei servizi trattamentali, lo psichiatra e tre psicologi che seguivano Stefano Argentino. L’obiettivo dell’indagine è chiarire se ci siano state omissioni o negligenze nella gestione di un detenuto già considerato a rischio suicidio.
Dalla sorveglianza speciale alla cella comune
Fin dal suo ingresso in carcere, Argentino era stato posto in regime di “grande sorveglianza”. Una misura che prevede controllo costante, cella singola e l’assenza di oggetti potenzialmente pericolosi. Questo in seguito a segnali evidenti di disagio psichico: digiuni, episodi depressivi e manifestazioni esplicite di intenti suicidari.
Tuttavia, due settimane prima della morte, valutando un’apparente stabilità emotiva, la direzione penitenziaria aveva revocato la misura. Riassegnato pertanto, a una cella condivisa e con minore controllo. È in questo contesto che Argentino ha potuto togliersi la vita.
La posizione del legale di Stefano Argentino
L’avvocato di Argentino, Giuseppe Cultrera, ha commentato duramente:
“Sette indagati è già indice di possibili responsabilità multiple. Stefano avrebbe dovuto essere in una Rems o in un istituto a custodia attenuata, non in un carcere ordinario. Lo Stato non è stato in grado di proteggerlo, come invece era suo dovere.”
Il legale aveva richiesto una perizia psichiatrica, ma il gip l’aveva respinta.
Un vuoto di giustizia per la famiglia di Sara
La morte di Argentino comporta la chiusura automatica del procedimento penale per l’omicidio (“mors rei”), cancellando ogni possibilità di condanna e risarcimento diretto ai familiari di Sara. Paradossalmente, invece, la famiglia del detenuto potrebbe chiedere un indennizzo allo Stato per omessa vigilanza, come previsto dall’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
L’avvocato Guido Stampanoni Bassi ha spiegato:
“Anche un reo confesso ha diritto alla tutela della propria vita sotto custodia. La mancata prevenzione di un suicidio può generare responsabilità civile e, in certi casi, penale per l’amministrazione penitenziaria.”
L’unica via: il fondo per le vittime
I parenti di Sara potranno rivolgersi soltanto al Fondo di solidarietà per le vittime di reati intenzionali violenti, che riconosce un indennizzo di 50mila euro. Una cifra che, come sottolinea Stampanoni Bassi, è “puramente simbolica rispetto al valore di una vita umana” e molto inferiore agli importi ottenuti in altri casi simili.
Un dibattito aperto
Il suicidio di Stefano Argentino solleva interrogativi etici e giuridici: come conciliare il diritto di ogni detenuto a un trattamento dignitoso e alla tutela della vita con la necessità di garantire giustizia alle vittime e ai loro familiari?
Il caso mette in luce lacune strutturali nel sistema penitenziario italiano — dalla carenza di personale alle difficoltà di gestione dei detenuti psichiatrici — e apre un doloroso interrogativo: in questa vicenda, lo Stato ha fallito su entrambi i fronti, non riuscendo a proteggere né la vita di Sara, né quella del suo assassino.