
Nella guerra in Ucraina, l’invasione russa ha scatenato una reazione compatta e immediata: sanzioni economiche senza precedenti, isolamento politico, congelamento di beni, restrizioni ai mercati, esclusione dallo sport internazionale. Governi e istituzioni, da Washington a Bruxelles, hanno dispiegato l’intero arsenale diplomatico e finanziario per punire Mosca. Il messaggio era chiaro: un’aggressione armata contro un popolo sovrano non può restare senza conseguenze.
Eppure, a migliaia di chilometri di distanza, a Gaza, il copione è radicalmente diverso. Qui, Israele, sotto la guida del governo Netanyahu, annuncia l’occupazione di Gaza City, operazione che, secondo una schiera di governi e organizzazioni internazionali, rischia di aggravare una catastrofe umanitaria già estrema, mettere in pericolo ostaggi e civili, e violare apertamente il diritto internazionale. L’indignazione formale c’è, le dichiarazioni abbondano, le note congiunte si moltiplicano. Ma le conseguenze politiche? Nessuna.
Niente sanzioni, niente embarghi, nessuna esclusione da forum o trattati internazionali. Solo un coro di “ferma condanna” e “profonda preoccupazione” che, nei fatti, non intacca minimamente la macchina militare israeliana. Questa asimmetria, due pesi e due misure, è il cuore del problema.
La differenza non è solo geografica o culturale: è politica e strategica. Israele gode di un sostegno solido e diretto da parte degli Stati Uniti, che non solo ne difendono le scelte in sede ONU, ma continuano a fornirgli armi e copertura diplomatica. Un ombrello che, di fatto, sterilizza qualsiasi tentativo di sanzione internazionale. Per la Russia, invece, l’appoggio era limitato a un ristretto gruppo di alleati; per Israele, la protezione è garantita dalla superpotenza che ancora definisce le regole del gioco globale.
Così, mentre per Kiev si mobilitano fondi miliardari e pacchetti di armi “per difendere la libertà”, per Gaza la solidarietà internazionale si riduce a aiuti umanitari e dichiarazioni d’intenti. Un C130 italiano paracaduta derrate alimentari, mentre, nello stesso momento, attacchi aerei israeliani uccidono civili in fila per ricevere cibo. L’immagine è potente e crudele: la mano che nutre e quella che colpisce convivono nello stesso teatro di guerra, senza che la seconda subisca un reale prezzo politico.
Il dramma è che questa disparità alimenta la percezione di un’umanità divisa in categorie: i morti di serie A, la cui tragedia mobilita l’Occidente intero, e i morti di serie B, il cui sangue non basta a spostare i rapporti di forza. I primi ottengono tribunali internazionali, condanne unanimi e piani di ricostruzione. I secondi, promesse di “cessate il fuoco” e qualche container di aiuti, finché il conflitto non sarà rientrato nei margini della notizia.
Il rischio, oltre che morale, è politico: l’ipocrisia mina la credibilità dell’ordine internazionale. Se il diritto vale solo quando non disturba un alleato strategico, allora diventa arbitrio. Se l’aggressione è intollerabile a Mosca ma “gestibile” a Gerusalemme, allora le regole non sono regole ma strumenti di convenienza geopolitica.
In Ucraina si è detto: “Non possiamo lasciare che la legge del più forte prevalga.” Ma a Gaza la legge del più forte non solo prevale, viene persino giustificata come “necessità di sicurezza”. Questa dissonanza è percepita, registrata e ricordata dal mondo arabo e musulmano, e non solo. Nel lungo periodo, il doppio standard rischia di essere il più grave combustibile per l’instabilità globale, molto più delle stesse operazioni militari.
La vita di un civile ucciso da una bomba non vale meno o più in base alla sua bandiera o alla sua religione. Eppure, la prassi internazionale continua a dirci il contrario. Gaza lo dimostra: si può invadere, bombardare, affamare una popolazione e restare pienamente integrati nei circuiti politici ed economici mondiali, se si hanno gli alleati giusti.
La domanda che resta, amara e inevitabile, è semplice: quanti morti palestinesi serviranno ancora prima che il mondo li consideri di serie A?