Meno simboli, più soluzioni

Perché al posto del CPR in Albania servivano nuove carceri in Italia: sicurezza e realismo contro il legalismo europeo.

La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul protocollo Italia-Albania suona come una sonora sconfessione della linea del governo italiano. Dietro il linguaggio neutro dei giudici si cela una scelta eminentemente politica: subordinare la sovranità degli Stati a un impianto giuridico che si pretende neutro, ma che finisce per interferire direttamente con le scelte strategiche in materia di sicurezza e immigrazione.

Stabilire che la designazione di un “Paese sicuro” debba essere sempre sottoposta a un controllo giurisdizionale effettivo, con la possibilità per qualsiasi giudice nazionale di annullare decisioni assunte dal governo e ratificate dal Parlamento, significa minare alla radice il principio di autodeterminazione democratica. A Bruxelles si finge di non capire che, nel contesto attuale, legalismo e astrattismo giurisprudenziale diventano strumenti di paralisi politica.

Che la protezione dei diritti dei richiedenti asilo sia un pilastro del diritto europeo è pacifico. Ma la Corte si spinge oltre, arrivando a legittimare che un singolo magistrato, sulla base di fonti private o non accessibili, possa sconfessare la valutazione compiuta da un governo democraticamente eletto, dai suoi apparati diplomatici, dai servizi di intelligence e dalle Commissioni parlamentari. È una distorsione grave del principio di separazione dei poteri, che rischia di compromettere l’efficacia dell’azione pubblica e di mettere in discussione il patto di fiducia tra Stato e cittadini.

Nel frattempo, mentre l’Italia viene ostacolata in ogni tentativo di razionalizzazione dei flussi migratori, come dimostra la vicenda dell’accordo con l’Albania, cresce nel Paese un’emergenza che l’Europa si ostina a ignorare: l’escalation della microcriminalità e della recidiva tra stranieri irregolari o richiedenti asilo. È un fatto, non un pregiudizio. I nostri quartieri, soprattutto nelle periferie urbane, sono sempre più spesso terreno di scontro tra illegalità diffusa e istituzioni impotenti.

L’Italia affronta oggi un doppio fallimento strutturale. Da un lato, un sistema penitenziario al collasso, già sanzionato dalla Corte di Strasburgo per sovraffollamento e inadeguatezza. Dall’altro, una presenza crescente di soggetti espulsi ma non rimpatriati, liberi di delinquere sul territorio nazionale senza alcuna prospettiva concreta di esecuzione delle misure previste. Di fronte a questo quadro, la soluzione non era un CPR in outsourcing in Albania costoso, logisticamente complesso e ora paralizzato dalla magistratura, bensì un investimento serio, strutturale e strategico in nuove carceri italiane.

Con volontà politica e fondi europei ben spesi, si potevano costruire strutture moderne, efficienti, dotate di sezioni dedicate ai detenuti stranieri in attesa di rimpatrio. Si sarebbe così affrontata insieme l’emergenza penitenziaria e il problema della sicurezza urbana, restituendo credibilità all’azione dello Stato. Un’operazione concreta, misurabile, al servizio dei cittadini.

Invece si continua a inseguire scorciatoie geopolitiche, oggi in Albania, domani forse in Libia o Tunisia, dimenticando che la lotta alla criminalità richiede presidi sul territorio, non simboli all’estero. Serve un ritorno al realismo politico: ammettere che una parte consistente della delinquenza urbana è alimentata da segmenti di immigrazione irregolare e agire di conseguenza, con strumenti di repressione, prevenzione e rimpatrio immediato.

La Corte UE ci richiama ai nostri doveri giuridici. Ma è compito del governo, e della politica nel suo insieme, garantire l’ordine pubblico, la certezza del diritto e la sicurezza dei cittadini. È tempo di abbandonare le illusioni giuridiche e affrontare con coraggio la realtà. Perché la giustizia vera, anche in Europa, non abita nelle aule dei tribunali, ma nelle strade sicure, nelle carceri funzionanti e nelle istituzioni che sanno decidere.