
L’accordo raggiunto tra Ursula von der Leyen e Donald Trump sui dazi, una tassazione del 15%, ha suscitato reazioni opposte tra due volti del sovranismo europeo: Viktor Orban e Giorgia Meloni. Due alleati sulla carta, due visioni sempre più distanti nei fatti.
Il premier ungherese non ha usato mezzi termini. “Trump se l’è mangiata a colazione”, ha commentato con il consueto sarcasmo in una diretta Facebook. Per Orban non si è trattato di un negoziato, ma di una capitolazione. Secondo lui, l’accordo tra Stati Uniti e Regno Unito è infinitamente più vantaggioso rispetto a quello ottenuto da Bruxelles, e ha denunciato il flusso di “centinaia di miliardi” che l’Europa riverserà negli Stati Uniti.
Di ben altro tono le dichiarazioni di Giorgia Meloni. Con pragmatismo e cautela, ha definito l’intesa come “non vincolante”, ancora aperta ai dettagli e suscettibile di modifiche. Per la premier italiana, pur non essendo “la soluzione ideale”, rappresenta un punto di partenza che potrebbe evitare scenari peggiori, come l’imposizione di dazi al 30%. Meloni punta sul lavoro diplomatico da fare, sugli spazi di manovra, sulle possibili esenzioni e compensazioni. Un approccio più istituzionale che barricadero.
Questo scarto tra i due leader mette in luce una crepa all’interno del blocco sovranista europeo. Entrambi membri dei Conservatori Europei, condividono da anni un’agenda incentrata su identità, confini, nazionalismo economico. Ma la questione dei dazi mostra che, quando il fuoco esce dal campo retorico per investire l’interesse nazionale concreto, le divergenze emergono con forza. Orban attacca frontalmente Bruxelles e la sua presidente. Meloni, pur cauta, difende la necessità di restare nella trattativa.
La realtà, però, è che l’accordo stesso, al di là dei toni, segna una sconfitta per l’Unione Europea. Il 15% di dazi non è un successo, ma una resa mascherata da compromesso. Le aziende italiane, da sempre fortemente orientate all’export, subiranno un colpo duro, soprattutto nei settori agroalimentare, moda e meccanica di precisione. E se alcuni comparti, come la farmaceutica o l’automotive, sembrano essere stati esclusi dalla stretta, l’incertezza su altri segmenti produttivi resta alta.
Ma c’è un secondo livello della trattativa che preoccupa: gli investimenti obbligati in energia e armamenti americani. Gli Stati Uniti non si sono limitati a chiedere tariffe più alte, ma hanno imposto alla controparte europea una fedeltà economica che sa di subordinazione geopolitica. In sostanza, l’Europa si impegna a comprare gas e armi da chi fissa le regole del gioco. Non è solo un danno commerciale, ma un’indicazione chiara della postura internazionale voluta da Trump: non alleati, ma clienti.
Se Orban insorge e Meloni temporeggia, il dato politico resta: l’Unione Europea esce da questo confronto indebolita, divisa, e sempre più dipendente. E se nemmeno i sovranisti riescono a parlare con una voce sola su una questione cruciale come questa, allora non è solo la Commissione a essere sotto scacco. È l’intera architettura europea a traballare sotto la stretta di Washington.