
Nel 2017 il Giappone fu scosso da un caso di rara efferatezza: Takahiro Shiraishi, soprannominato il “Killer di Twitter”. Un giovane uomo residente a Zama, vicino Tokyo che attirava le sue vittime attraverso Twitter fingendosi un “aiutante compassionevole” per persone con intenti suicidi. Con il nome utente @hangingpro, Shiraishi si presentava come esperto di impiccagione e si offriva di “aiutare” chi voleva morire, proponendo una fine indolore.
In realtà, il suo intento era ben diverso. Le sue vittime – otto donne e un uomo – furono attirate nel suo appartamento, violentate e uccise. I corpi vennero successivamente smembrati e conservati in celle frigorifere, in quella che venne poi definita “la casa degli orrori”.
Il “Killer di Twitter”: la cattura e la condanna a morte
Il “Killer di Twitter” venne arrestato nel 2017, dopo che la polizia riuscì a rintracciare una delle sue vittime grazie all’insistenza del fidanzato, che si era insospettito della sua scomparsa. La successiva perquisizione nell’appartamento rivelò un macabro scenario: resti umani suddivisi in contenitori, in condizioni che lasciarono senza parole anche gli investigatori più esperti.
Nel 2020, Shiraishi fu condannato a morte per omicidio, violenza sessuale e vilipendio di cadavere. Il suo processo attirò l’attenzione dei media internazionali per l’estrema freddezza dell’imputato e per la dinamica con cui aveva manipolato psicologicamente le vittime. Alcune di esse erano adolescenti, tutte con fragilità emotive, alle quali Shiraishi prometteva comprensione e una fine indolore.
L’esecuzione del “Killer di Twitter”: segretezza e ritualità nella prigione di Tokyo
Il 27 giugno 2025, il Ministero della Giustizia giapponese ha confermato l’avvenuta esecuzione per impiccagione di Takahiro Shiraishi. L’impiccagione è avvenuta nel carcere di Tokyo, un edificio apparentemente anonimo nel quartiere di Katsushika, ma noto per ospitare detenuti nel braccio della morte.
In Giappone, le esecuzioni avvengono in gran segreto. I detenuti vengono informati solo poche ore prima, spesso il giorno stesso, per limitare il trauma psicologico. Il ministro della Giustizia Keisuke Suzuki ha firmato l’ordine di esecuzione nei giorni precedenti, ma ha dichiarato di non aver assistito all’impiccagione.
La procedura prevede un meccanismo teatrale e crudele: il condannato, bendato e incappucciato, viene fatto precipitare attraverso una botola. Il tutto avviene in una sala rossa brillante, con tende blu e una vetrata dietro la quale i funzionari osservano. Al termine, un medico certifica il decesso e il corpo viene rimosso in silenzio.
Un sistema giudiziario sotto esame
Attualmente, 105 persone si trovano nel braccio della morte in Giappone, e quasi la metà di esse ha presentato richieste di revisione del processo. Nonostante le crescenti pressioni da parte di associazioni per i diritti umani e di organismi internazionali, il Giappone continua a mantenere la pena capitale, condividendo questa posizione, tra i paesi del G7, solo con gli Stati Uniti.
Dal 2007, il governo giapponese ha iniziato a rendere noti i nomi dei giustiziati e le modalità dei loro crimini, ma la trasparenza è ancora limitata. Le esecuzioni restano avvolte dal silenzio istituzionale, in una società dove il tasso di criminalità è basso ma dove gli omicidi seriali o di massa provocano scosse profonde nell’opinione pubblica.
L’impatto sociale e il dibattito sulla pena di morte
Il caso Shiraishi ha lasciato una ferita aperta nella società giapponese, anche per la modalità con cui l’uomo ha strumentalizzato le fragilità psicologiche delle sue vittime. Fingendosi un alleato empatico, costruiva una rete di manipolazione che conduceva alla morte.
L’opinione pubblica giapponese rimane in larga parte favorevole alla pena capitale, come evidenziato da un recente sondaggio governativo citato dal ministro Suzuki. Tuttavia, è in crescita una fascia di popolazione che si interroga sull’etica e sull’efficacia di queste esecuzioni segrete e ritualizzate, soprattutto dopo casi controversi come quello di Iwao Hakamada, condannato ingiustamente e poi assolto dopo decenni nel braccio della morte.
Giustizia o vendetta?
L’esecuzione del “Killer di Twitter” riaccende il dibattito sull’equilibrio tra giustizia, sicurezza pubblica e diritti umani. Il Giappone, Paese di contrasti tra modernità tecnologica e tradizioni antiche, resta ancorato a una pratica giudiziaria che molti considerano anacronistica. La storia di Takahiro Shiraishi non è solo quella di un mostro seriale, ma anche il riflesso di una società che fatica a gestire i suoi lati oscuri con strumenti trasparenti e compassionevoli.