
Il 12 giugno 2025 segna un punto di non ritorno nella tormentata storia del Medio Oriente. Israele, con un’operazione militare pianificata da anni e battezzata Rising Lion, ha colpito il cuore strategico dell’Iran. Dalla distruzione dell’aeroporto di Tabriz ai danni devastanti all’impianto nucleare di Natanz, fino all’eliminazione mirata del consigliere politico di Khamenei, del capo di stato maggiore e di alcuni scienziati del programma nucleare iraniano, Tel Aviv ha sferrato un attacco chirurgico quanto letale.
Dietro le quinte, il Mossad. Secondo fonti mediorientali, l’intelligence israeliana avrebbe costruito nel tempo una base segreta per droni a Esfajabad, nei sobborghi di Teheran, inserendosi in profondità nel tessuto logistico iraniano. Una rete sotterranea di armi, veicoli, tecnologie e agenti avrebbe reso possibile l’infiltrazione e il sabotaggio, colpendo con precisione micidiale i nodi vitali della difesa iraniana.
Lo spettro di un conflitto senza fine
La risposta di Teheran non si è fatta attendere: “È una dichiarazione di guerra. Siamo pronti a combattere per anni”, ha tuonato il governo iraniano. Oltre cento droni sono stati lanciati verso Israele, intercettati in gran parte dall’irondome e da batterie missilistiche avanzate. Ma il messaggio è chiaro: l’Iran non resterà a guardare.
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha proclamato lo stato di emergenza speciale su tutto il territorio nazionale, anticipando un’ondata di rappresaglie missilistiche. I cittadini israeliani sono stati invitati a rifugiarsi nei bunker. Il paese è in allerta, pronto a una guerra difensiva che potrebbe diventare offensiva e regionale.
L’ombra lunga di Trump e la diplomazia scomparsa
A gettare benzina sul fuoco, il presidente americano Donald Trump, ha commentato: “L’Iran farebbe meglio a fare un accordo prima che non rimanga più nulla.” Una frase che sa di minaccia, o peggio, di complicità tacita con le ambizioni israeliane. La diplomazia internazionale, intanto, balbetta. L’ONU è paralizzata. L’Europa invoca “moderazione”, mentre Washington tace o approva con sguardo distratto.
Il rischio è quello di un’escalation fuori controllo. Con Hezbollah al confine nord, Hamas a sud, e l’Iraq e la Siria terreno di manovra per milizie iraniane, Israele rischia di dover affrontare una guerra su più fronti. Ma è anche vero che la supremazia tecnologica e strategica dimostrata in Rising Lion rivela un Israele più che mai determinato, freddo, e letalmente efficace.
Un futuro in fiamme, un presente congelato
L’attacco israeliano è stato non solo un colpo militare, ma anche un messaggio ideologico. Nessuna trattativa, nessuna tregua: chiunque progetti la distruzione dello Stato ebraico sarà colpito prima, dall’interno. È la dottrina della guerra preventiva, portata all’estremo.
Eppure, il prezzo potrebbe essere altissimo. Una nuova guerra mediorientale non solo destabilizzerebbe la regione, ma minerebbe anche gli equilibri globali tra Stati Uniti, Russia e Cina, ciascuno con i propri interessi in gioco. È l’alba di una guerra che nessuno ha dichiarato, ma che tutti stanno aspettando da anni.
La storia non aspetta: il Medio Oriente di nuovo in fiamme
Il leone ha ruggito. Israele ha colpito prima, colpito duro, colpito dentro. Ma l’Iran è una potenza ferita, non una nazione sconfitta. Ora si apre una nuova fase, in cui la deterrenza non basta più, e la guerra torna a essere politica con altri mezzi.
È tempo che l’Occidente scelga se assistere al disastro da spettatore, o se tornare a essere attore. Perché la storia non aspetta. E il Medio Oriente, ancora una volta, brucia.