
Con la morte di Papa Francesco, il mondo perde molto più di un pontefice: perde un uomo che ha saputo incarnare, con straordinaria forza e tenerezza, il Vangelo vissuto. Jorge Mario Bergoglio è stato un papa diverso, un pastore con l’odore delle pecore, un uomo che ha fatto della semplicità, della vicinanza agli ultimi e dell’umiltà la cifra del suo pontificato.
Il suo viaggio da Buenos Aires a Roma, nel marzo del 2013, segnò non solo un cambiamento geografico ma l’inizio di una rivoluzione spirituale. Primo papa gesuita, primo papa latinoamericano, primo a scegliere il nome di Francesco, in onore del Poverello di Assisi, sin dal suo primo apparire si comprese che nulla sarebbe stato più come prima. Rinunciò alla mozzetta di velluto rosso, si affacciò alla loggia di San Pietro chiedendo una benedizione al popolo prima ancora di impartirla, e poi scelse di vivere nella residenza di Santa Marta anziché nei sontuosi appartamenti pontifici: piccoli gesti, ma carichi di un messaggio potente.
Nel suo cuore c’erano i poveri, sempre. Non erano un tema teologico o una categoria sociologica: erano volti, mani, storie. Chi lo ha visto camminare nelle periferie di Roma, abbracciare i senzatetto sotto i portici del Vaticano, sedersi a mangiare con i rifugiati, testimonia la radicalità del suo amore. Mai si è sottratto all’incontro con l’emarginato. Una delle immagini più struggenti rimane quella del Papa che, in una fredda serata di dicembre, fa installare delle docce per i senzatetto nei pressi del colonnato di San Pietro, e poco dopo fa aprire un “barbiere del Papa” gratuito per chi non ha nulla. «La dignità non è un lusso», diceva.
Indimenticabile fu anche il suo gesto a Lampedusa, nel luglio del 2013: la sua prima visita pastorale fu dedicata ai migranti, in memoria delle vittime del mare. «La globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere», disse con voce rotta. Quelle parole risuonarono come un grido, scuotendo le coscienze addormentate dell’Occidente.
Papa Francesco ha parlato al cuore del mondo, usando un linguaggio semplice e diretto. Ha denunciato le ingiustizie, l’idolatria del denaro, lo sfruttamento dell’ambiente. Ma lo ha fatto senza mai perdere la dolcezza, il sorriso, la misericordia. Il Giubileo Straordinario della Misericordia da lui indetto nel 2015 fu il compendio del suo messaggio: Dio è un Padre che abbraccia, non un giudice che condanna.
Tante volte ha lasciato senza parole anche chi non credeva. Come quando si recò, in silenzio e preghiera, sull’isola di Lesbo, per poi riportare con sé a Roma tre famiglie di rifugiati siriani. Nessuna strategia, solo Vangelo.
Papa Francesco ha incarnato la radicalità dell’amore. E lo ha fatto senza mai cedere all’autoreferenzialità, senza mai cercare il potere, sempre con lo sguardo rivolto ai piccoli, agli scartati, ai dimenticati. Fino alla fine, anche quando il corpo lo tradiva e la voce si faceva stanca, non ha smesso di tendere la mano.
Oggi, mentre le campane suonano a lutto, il mondo intero saluta un uomo che ha saputo farsi fratello, padre, amico. Non ci resta che custodire il suo esempio: una Chiesa vicina agli ultimi, una voce instancabile in difesa della dignità umana, un invito a guardare l’altro con empatia e rispetto. In un tempo segnato da divisioni e indifferenza, la sua eredità resta un richiamo potente alla coscienza di tutti: coltivare l’umanità, sempre, ovunque.
Addio, Francesco. E grazie.